Il futuro della chiesa riformata

Simposio all'università di Zurigo: una sintesi

17 novembre 2025

(eks/ve) 500 anni fa a Zurigo, a fianco del Grossmünster, nasceva la Prophezey o “Alta Scuola teologica” voluta dal Riformatore Huldrych Zwingli: un luogo dove alacremente si studiavano, discutevano e traducevano i libri dell'Antico Testamento in lingua ebraica, greca e latina. Un'istituzione educativa innovativa sotto molteplici punti di vista, dalla quale nel 1531 non solo scaturì la Bibbia di Zurigo, con il passare del tempo si formò quella che divenne l’Università di Zurigo.
È con in mente questo spirito di innovazione e slancio che dal 19 al 21 ottobre si è tenuto a Zurigo un simposio intitolato “Il futuro della chiesa riformata in Svizzera” – promosso dalle facoltà di teologia delle università di Ginevra e Zurigo – a cui hanno partecipato un centinaio di teologi e teologhe, esponenti di chiese, pastori e pastore. Segue un resoconto dei lavori del convegno.

La chiesa universale
Rita Famos (CERiS) ha sottolineato che il futuro della chiesa riformata – nonostante tutte le sfide, come il calo dei membri, le difficoltà finanziarie e i casi di abuso – non può essere ridotto a una crisi. La chiesa è più della sua istituzione: allo stesso tempo locale (ekklēsía) e universale (koinōnía). Attraverso la Comunione mondiale delle chiese riformate le chiese del Sud, in particolare, testimoniano un Vangelo vivente, che è di sfida e di ispirazione per le chiese del Nord.
Sotto l’aspetto teologico la chiesa non ha un proprio programma per il futuro – il suo futuro è Dio stesso. Vive tra Pasqua e la 
Parusia, chiamata a testimoniare in un “presente pieno”. Nonostante le sue debolezze è sostenuta dalla fede e liberata per agire qui e ora. Iniziative come il Festival Refine (vedi la rivista Voce evangelica di dicembre 2025, ndr.) dimostrano che sa ancora come radunare le persone. Il suo compito rimane quello di annunciare il Vangelo e di invitare a seguire Cristo.

Cristo al centro della chiesa
Edwin van Driel (Pittsburgh Theological Seminary, USA) ha tracciato una vigorosa visione teologica per un’epoca postcristiana: la chiesa non è un’organizzazione da salvare, bensì una comunità riunita da Cristo stesso. La salvezza diventa visibile lì dove Cristo agisce e riunisce persone di diversa provenienza. Le sue riflessioni seguono la lettera agli Efesini: Cristo riunisce, la chiesa discerne, la salvezza si sperimenta come “comunità di diversi”; l’unità si realizza al di là delle mere simpatie e la missione deriva da questa unione.
La forza teologica di questo approccio è stata riconosciuta, ma sono emerse anche questioni pratiche. Emma van Dorp (Università di Ginevra) ha sottolineato l’importanza di collegare la teologia all’esperienza quotidiana – la salvezza passa anche attraverso gesti concreti. Sabrina Müller (Università di Bonn) ha messo in guardia dal pericolo dell’esclusione: la chiesa non può riunire se non è giusta. In una cultura post-digitale bisogna dare ascolto alle voci dissonanti e accettare la pluralità.
Al centro della discussione c’era una convinzione condivisa: la chiesa non possiede Cristo, partecipa alla sua opera. Ciò significa accogliere la diversità senza neutralizzarla. Il futuro di una chiesa riunita da Cristo risiede in forme decentralizzate, eque, orientate all’ascolto e comunitarie – in pratiche concrete che danno corpo alla salvezza.

La questione della rilevanza della chiesa
Ralph Kunz (Università di Zurigo) ha criticato in modo differenziato gli sforzi della chiesa volti ad acquisire rilevanza in un’epoca di crisi generalizzata. La rilevanza, secondo Kunz, non si può fabbricare, viene ricevuta – in una dinamica sociale complessa. Il Vangelo rimane significativo, ma perde la sua forza quando si adegua troppo alle attese dei suoi destinatari. Kunz ha messo in guardia da due estremi: l’adeguamento fino alla banalizzazione e l’indifferenza autosufficiente.
Chiede una “critica evangelica della rilevanza”: nessuna strategia di marketing, nessun atteggiamento di difesa, bensì una vita ecclesiale che attinge alla risonanza autentica del Vangelo. La chiesa non deve vendersi, bensì vivere di grazia – con umiltà e coraggio. Altrimenti cade in una logica palliativa, determinata dalla paura del declino piuttosto che dalla fiducia in Dio.

Matthia Zeindler (chiesa Berna-Giura-Soletta) ha rimarcato che soltanto Dio rende la fede rilevante – non le strategie umane. La rilevanza può tanto rivelare quanto tradire il Vangelo.
Elio Jaillet (CERiS) ha aggiunto che il dibattito ecclesiale sulla rilevanza mostra una paura della finitezza. Ha invitato a integrare spiritualmente la possibilità della morte istituzionale. Tutti e tre hanno chiesto una rilevanza “a forma di croce”: fedele, vulnerabile e radicata nella grazia.

Una chiesa che dice una verità scomoda?
Elisabeth Parmentier (Università di Ginevra) ha invitato la chiesa ad avere il coraggio di una parola vera, scomoda e liberatoria – al di là di un facile conformismo. Ha criticato proposte moderne come i “matrimoni pop-up” o i “battesimi drop-in”, che senza un chiaro ancoraggio filosofico annacquano il messaggio centrale del Vangelo. La chiesa può rivolgersi al benessere, ma non deve rimuovere la croce, scandalo e svuotamento della potenza divina in Cristo.
Di fronte a una cultura comunitaria indebolita, Parmentier ha posto in risalto l’importanza delle chiese locali – una comunione imperfetta ma reale. Ha invocato una testimonianza radicata nella liturgia, nella parola e nella fiducia condivisa. A Ginevra l’esempio di una “chiesa dei bambini” mostra una forma di fede semplice ma profonda – lontana dalla logica di servizio e dalla cultura degli eventi.

Miriam Rose (Università di Basilea) ha evidenziato la speranza come accesso alla tematica della fede. Ha messo in guardia dalle semplificazioni e ha promosso una profondità fondata sulla teologia e sulla Bibbia. Le forme innovative sono allora sensate se conducono a un percorso spirituale. Ha invocato una chiesa nella diaspora – varia, stabile, ospitale e formativa.

Le dirigenze ecclesiali di fronte al cambiamento
Lunedì pomeriggio diversi workshop hanno offerto l’opportunità di approfondire questioni attuali inerenti alla trasformazione della chiesa: sacramenti, ministero, musica di chiesa e membri.
Di fronte alla crisi delle vocazioni e alla limitatezza delle risorse il workshop sul ministero pastorale ha invocato cambiamenti strutturali. Martin Schmidt (San Gallo) si è pronunciato a favore di una “generous orthodoxy” e di forme di chiesa flessibili. Thomas Schaufelberger (Zurigo) ha chiesto di sostituire l’immagine del “tuttofare” a beneficio di competenze specializzate e collaborative. Il ministero è pensato in modo comunitario, contestuale e interconnesso.

Angela Berlis (Università di Berna, teologia cattolica cristiana) ha sottolineato il legame tra ministero e comunità, l’importanza di una liturgia viva, di una formazione solida e dell’apertura ecumenica. Ha fatto riferimento a ministeri non remunerati, come nei Paesi Bassi. L’autorità spirituale viene condivisa, radicata nella spiritualità e nella collaborazione – espressione di una “teologia incarnata”. Il ministero non è tanto una questione di status quanto di servizio.
In una tavola rotonda conclusiva diverse dirigenze ecclesiali – Christophe Weber-Berg (Argovia), Christina aus der Au (Turgovia), Anne Abruzzi (Vaud), Yves Bourquin (Neuchâtel) e Iwan Schulthess (Berna–Giura–Soletta) – hanno esposto i loro processi di riforma: fusioni, ampliamento dei team, maggior coinvolgimento dei volontari. Tutte cercano l’equilibrio tra flessibilità istituzionale e fedeltà al Vangelo. La governance resta caratterizzata da intensi dibattiti per rispettare il principio di sussidiarietà. Tutte le dirigenze sembrano concordi nel ritenere assolutamente necessaria una ridefinizione del ministero pastorale. L’obiettivo rimane quello di incarnare una speranza concreta.

La trasformazione della chiesa locale – un esempio pratico
Juliane Schüz (Chiesa evangelica d’Assia e Nassau, Germania) ha usato l’immagine di un banco di missaggio per descrivere l’adeguamento delle strutture ecclesiali senza rottura e senza appiattimento teologico. Anziché riforme radicali ha chiesto un continuo aggiustamento di tre “regolatori”: struttura territoriale, servizio pastorale e orientamento missionario. Di fronte alla diminuzione delle risorse la sua chiesa crea “spazi di vicinato”, conciliando radicamento locale e coerenza regionale.
Il ministero pastorale si evolve: si passa dal modello del guerriero solitario al team con competenze differenziate. Pastore e pastori diventano custodi della visione d’insieme – con un ruolo di guida ermeneutica. I compiti liturgici e pastorali vengono condivisi con laici qualificati. Schüz descrive questo cambiamento come un doppio processo di movimento: “Raccogliere e rilanciare”. La comunità diventa uno spazio ibrido – al contempo analogico e digitale – aperto per nuove pratiche missionarie fondate sul Vangelo.

Andrea Bieler (Università di Basilea) ha elogiato questo approccio pragmatico, tuttavia ne ha messo in discussione i presupposti teologici. Ha distinto tra un mero adattamento cibernetico e una ecclesiologia ispirata alla Parola vivente. La discussione si è estesa: come si assicurano appartenenza e visibilità in una chiesa plurale? I critici hanno messo in guardia da un adeguamento di facciata, altri hanno sottolineato l’importanza di relazioni forti per una chiesa trasformata, umile e accogliente.

La chiesa: profetica e umile
Nel suo intervento Prophetic Voice and Indifference (“Voce profetica e indifferenza”) Bruce Gordon (Yale University, USA) ha delineato l’immagine di una società divenuta non nemica ma indifferente nei confronti della chiesa. Questa apatia è espressione di una profonda crisi spirituale provocata dalla perdita della vocazione profetica della chiesa. Ispirandosi a Zwingli, Gordon ha invocato una chiesa dell’ascolto e dell’interpretazione comunitaria delle Scritture – su modello della Prophezei zurighese – fondata sull’umiltà e sulla devozione, in grado di resistere alla superficialità della comunicazione moderna.
Contro la tentazione di piacere o di adeguarsi al mercato religioso chiede una chiesa che rimanga fedele al Vangelo – anche quando è scomoda. La parola cristiana deve restare esigente, perché chiama alla conversione e allo zelo. Un tale annuncio, vissuto con integrità e semplicità, può ancora toccare i cuori. Di fronte all’indifferenza diffusa la chiesa riottiene la sua forza profetica quando la fede annunciata e la vita trasformata sono in accordo.
Nella sua replica Stephan Jütte (CERiS) ha differenziato il parere di Gordon. Ha riconosciuto l’accuratezza della diagnosi, tuttavia ha fatto notare che l’indifferenza è spesso espressione di una ricerca spirituale priva di orientamento. Ha posto l’accento su nuove forme di espressione della fede al di là dei quadri istituzionali. In una cultura digitale caratterizzata dalla ricerca di autenticità la testimonianza cristiana dovrebbe essere vulnerabile e sincera. Profetica è allora una presenza modesta ma autentica nel mondo.

Commento finale
Nel suo commento conclusivo Thomas Schlag (Università di Zurigo) ha sottolineato che nonostante le crisi più volte diagnosticate il convegno è stato sostenuto da uno spirito pieno di speranza e dinamico – un atteggiamento che rifiuta la mera retorica della crisi. Particolarmente degno di nota è stato il coerente approccio teologico ai temi, che va ben oltre le questioni giuridiche o finanziarie. Per Schlag questa profondità, che concilia tradizione innovazione, è un segno distintivo della riflessione ecclesiale.
Ha invitato a pensare la chiesa come spazio di mediazione – con un ampio, generoso centro che integra la diversità e rende possibile una comunità vulnerabile, capace di discernimento e pronta alla trasformazione. Ha propugnato un’etica della moderazione – una virtù del mezzo – contro l’attivismo, la rassegnazione o la stagnazione. Una chiesa che sopporta le tensioni, consente la negoziazione e condivide la speranza può avere stabilità in questo mondo. (Dal blog del sito della Chiesa evangelica riformata in Svizzera; trad. G.M. Schmitt)

 

 

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