Sociologia. Siamo tutti animati dal sacro

Hans Joas relativizza l’idea di un processo di secolarizzazione che accompagnerebbe la modernità

19 agosto 2020  |  Anne-Sylvie Sprenger

Il sociologo tedesco Hans Joas è convinto che il mondo occidentale debba abbandonare l’idea secondo cui la secolarizzazione europea sarebbe la conseguenza diretta e inesorabile del progresso scientifico e della crescita economica. Nel suo nuovo libro: “Die Macht des Heiligen. Eine Alternative zur Geschichte von der Entzäuberung” (“Il potere del sacro. Una alternativa alla narrazione del disincanto”), analizza la questione della permanenza del sacro e della religione nell’esistenza umana e nella vita sociale.

Si è molto parlato della secolarizzazione, che ha respinto la religione ai margini dell’esistenza. Una tendenza a suo avviso sopravvalutata?
Sì, sopravvalutata in un senso particolare. Nessuno può negare un declino della religione in diversi paesi europei, all’est come all’ovest. Al di fuori dell’Europa, tuttavia, soltanto alcuni paesi - come ad esempio l’Uruguay e la Nuova Zelanda - presentano uno schema simile alla laicizzazione “volontaria” dell’Europa occidentale. C’è ovviamente anche il caso della laicizzazione comunista “forzata” (in Cina e in Corea del Nord), ma in Cina assistiamo oggi a una forte rivitalizzazione della religione. Ciò che è essenziale rilevare è in particolare il fatto che la spiegazione convenzionale della secolarizzazione europea, cioè che sarebbe la conseguenza della modernizzazione nel senso della crescita economica e del progresso scientifico e tecnologico, ha perso gran parte della sua plausibilità.

Il sociologo tedesco Hans Joas

Perché questa spiegazione non è più credibile?
Questo disconoscimento è dovuto da un lato alla ricerca sulla storia religiosa degli Stati Uniti e a quella sull’eterogeneità interna del paesaggio religioso europeo e dall’altro al fatto che la modernizzazione al di fuori dell’Europa nel corso degli ultimi decenni non ha avuto, nella maggior parte dei casi, conseguenze secolarizzanti. Basta considerare la Corea del Sud, dove la rapida secolarizzazione è andata di pari passo con la cristianizzazione, o l’Africa, dove la fine del regime coloniale in molti paesi non ha sancito la fine del cristianesimo, ma è stata invece il punto di partenza della sua crescita.

In questo libro lei decostruisce la teoria del disincanto di Max Weber. Perché ritiene che tale teoria sia sbagliata?
Innanzitutto vorrei precisare che la narrazione del disincanto di Max Weber non è la stessa cosa della tesi sulla secolarizzazione menzionata prima. Per Weber la questione è di sapere se la secolarizzazione europea moderna (a partire dal 18.esimo secolo) abbia o meno una preistoria. Egli considera quindi i tentativi di sopprimere la magia, risalenti ai profeti dell’Antico Testamento, come la prima fase di un processo storico mondiale che porta infine alla secolarizzazione e alla razionalizzazione generalizzata della vita moderna.

Le cose non sono andate così?
La mia critica principale è che Weber ha raggruppato processi molto diversi sotto un’unica e sola etichetta, quella del disincanto. Suggerisco di distinguere tra la “demagizzazione” come soppressione della magia, la “desacralizzazione” come perdita del senso esistenziale, la “detrascendentalizzazione” come indebolimento dell’idea di trascendenza e la “secolarizzazione” come declino della religione.
Ritengo che sia necessario considerare la storia religiosa non come un processo di crescente disincanto - come invece ha fatto Weber -, ma come un andirivieni tra il rafforzamento e l’indebolimento della magia, l’affiorare di nuovi ideali e la perdita della loro forza motivante, il rafforzamento e l’indebolimento delle idee di trascendenza, così come tra la secolarizzazione e la rivitalizzazione religiosa. Tutti questi processi hanno bisogno di una spiegazione empirica, ma l’ipotesi del disincanto occidentale come processo unitario è un mito.

Lei distingue chiaramente tra religione e sacro. Secondo lei il sacro è preesistente a ogni forma di religione. Come definirebbe questa nozione di sacro?
Nella mia definizione mi baso sullo sviluppo degli studi religiosi intorno al 1900, in particolare sui lavori di due sociologi francesi classici (Émile Durkheim e Marcel Mauss) e di due teologi protestanti, uno tedesco e l’altro svedese (Rudolf Otto e Nathan Söderblom). Per loro il sacro non è definito come una caratteristica inerente alle religioni, ma come una qualità che affiora nel quadro di esperienze personali intense.

Cioè?
Quando una persona sperimenta ciò che io chiamo “l’autotrascendenza”, cioè il fatto di essere afferrata da qualcosa situata al di là dei propri limiti, essa attribuisce la fonte di quel potere a qualcosa che si trova al di là di se stessa. Ciò nasce in modo irrazionale, a livello di pancia, per così dire, e non di cervello. È quello che succede quando ci si innamora o quando si prova una sensazione di fusione emotiva con la natura.

Che ruolo hanno le religioni nei confronti del sacro?
Le religioni sono tentativi di organizzare l’esperienza del sacro, di renderla comprensibile, di trasmetterla agli altri, di ritualizzare l’accesso al sacro.

Ma i non credenti le risponderanno che il sacro è un’invenzione delle religioni…
In realtà non è normalmente questa la reazione dei non credenti. Persino le persone più critiche sanno di che cosa parlo quando mi riferisco alle esperienze che ho appena menzionato e alle loro conseguenze emotive e cognitive. Penso che non dovremmo considerare le religioni come una sorta di sistema chiuso al quale alcune persone hanno accesso e altre no.

Il sacro può dunque esistere a prescindere da qualsiasi istituzione?
Soltanto per un breve periodo di tempo. Anche nell’ambito più personale abbiamo la tendenza a ritualizzare il ricordo di esperienze intense: penso ad esempio alle coppie che celebrano l’anniversario del loro primo incontro o del loro matrimonio. Se non sono condivise e riprodotte, le esperienze perdono la loro forza. Le persone che lasciano una comunità religiosa, per una qualsiasi ragione e senza aver perso la propria fede, spesso perdono in seguito anche il loro attaccamento alla fede religiosa.

Per quale motivo le sembra importante partire sempre dall’esperienza personale?
Per me le lezioni del teologo Friedrich Schleiermacher e del filosofo e psicologo William James, i quali hanno dato molto spazio all'esperienza, sono davvero cruciali per comprendere la religione. Ciò è ovviamente in contrasto con una comprensione della religione principalmente in termini di dottrine, di morale o di istituzioni. Ma un tale approccio non deve limitarsi all’esperienza e deve analizzare anche le dottrine e le istituzioni alla luce delle esperienze costitutive che le sottendono.

La fede può quindi essere studiata secondo criteri scientifici?
Bisogna distinguere tra la fede in quanto fenomeno umano che può certamente essere studiato scientificamente come tutti gli altri fenomeni umani e la fede in quanto relazione degli esseri umani con Dio o con il trascendente, per cui la scienza non può essere una sorta di arbitro finale.

Qual è esattamente il potere del sacro, al quale lei fa riferimento, e su chi si esercita?
Ogni essere umano si ispira a idee che considera come evidentemente buone o cattive. In questo senso siamo tutti animati dal sacro. Poiché anche tutte le strutture di potere, nei loro tentativi di autogiustificazione o di legittimazione, si basano su visioni del bene o del male, ogni cambiamento nel sacro stabilizza o destabilizza le strutture di potere.

Stando al titolo del suo libro il sacro non avrebbe perso il suo potere. Bisogna rallegrarsene o è invece motivo di preoccupazione?
Entrambe le cose. Il “sacro” non equivale al bene morale, né per Durkheim né nel mio lavoro. C’è sempre anche il potere del demonio o del diabolico… Considerare ad esempio il nazismo tedesco e il maoismo cinese come movimenti che nascono da esperienze del sacro, permette di capirli meglio, ma costringe anche a essere anche più attenti nei confronti di fenomeni nuovi simili a quelli. Ciò che è vero per le forme secolari di sacralità si applica anche alle espressioni religiose. Sotto l’etichetta di “religioso” vengono registrati fenomeni molto diversi tra di loro ed è perciò di fatto impossibile arrivare a un’unica e sola valutazione morale o politica.

Come vede il futuro delle religioni e il loro ruolo nella vita pubblica e privata?
È una domanda alla quale è difficile rispondere Un sociologo con una vocazione storica risponderà che dipende dal paese o persino dalla regione presa in esame. Un'ipotesi centrale della mia teoria è che la politica svolga un ruolo fondamentale in questo ambito. L’atteggiamento delle chiese o di altre comunità religiose nei confronti di questioni politiche cruciali - come ad esempio l’indipendenza nazionale, le sorti della classe operaia, il ruolo delle donne - è spesso stato determinante nella decisione delle persone di restare fedeli a una chiesa o di andare alla ricerca di alternative, religiose o laiche.

Il futuro delle chiese dipenderebbe quindi anche dal loro comportamento sulla scena politica?
I bisogni spirituali possono essere soddisfatti in molti modi e la percezione delle istituzioni religiose è olistica. Ciò significa in effetti che le persone possono cercare alternative religiose perché sono in disaccordo con l'orientamento politico di una chiesa. Una parte della storia europea della secolarizzazione è del resto legata in particolare all'indifferenza mostrata dalle chiese nei confronti delle rivendicazioni della classe operaia nel 19.esimo secolo.
Ma poiché il messaggio del cristianesimo così come io lo concepisco - con la sua etica dell’amore, il suo universalismo morale, la sua comprensione dell’essere umano - ha oggi una forte capacità d'attrazione, anche in parti del mondo in cui questa tradizione religiosa non ha radici, rimango ottimista riguardo al suo futuro, anche per l’Europa. (da Réformes; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)

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