Protestanti europei: fate memoria, sappiate differenziare e continuate a resistere
(ccpe/ve/gc) Serve una cultura della memoria onesta e differenziata che favorisca la riconciliazione: è questo lo spirito della Dichiarazione della Comunione di chiese protestanti in Europa (CCPE) resa pubblica in occasione della fine della Seconda Guerra mondiale di 80 anni fa e della liberazione dal nazifascismo.
Il testo biblico che accompagna la Dichiarazione intitolata “Fare memoria, differenziare, resistere” è tratto dal Deuteronomio (4,9): “Soltanto, bada bene a te stesso e guàrdati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli”.
Per la CCPE la Seconda guerra mondiale in Europa ebbe veramente fine soltanto con la caduta del muro di Berlino nel 1989, un traguardo che arrivò a tappe, grazie ad importanti conquiste democratiche e movimenti di popolo. La CCPE fa notare che se l’Europa ha una storia comune, non ha certamente una memoria comune, e mette in guardia: “Il rifiuto del diritto alla memoria e l’assenza di confronto con il passato costituiscono il terreno di nuove ingiustizie nel presente”.
Per la CCPE la commemorazione dell’8 maggio 1945, che segna la fine della Seconda guerra mondiale, è anche un’occasione per evocare la resistenza: “contro la banalizzazione della colpa, contro la relativizzazione dei diritti umani, contro il cinismo delle logiche amico-nemico”.
Pertanto la CCPE invita a praticare una cultura della memoria onesta e differenziata, che consenta la riconciliazione e in cui la guerra e l'ingiustizia non siano sfruttate per fini politici e non portino a nuove divisioni.
Proponiamo di seguito una traduzione in italiano del documento disponibile qui anche in tedesco, inglese e francese.
Soltanto, bada bene a te stesso e guàrdati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli. (Deuteronomio 4,9)
L’8 maggio 1945, dopo 2.077 giorni di guerra, il barbarico regime nazionalsocialista che governava la Germania si arrese dopo aver causato una frattura della civiltà senza precedenti. Da 60 a 75 milioni di esseri umani, circa il 3,5% della popolazione mondiale dell’epoca, pagarono con la vita il prezzo di questa “guerra totale”. Sei milioni di ebree ed ebrei sono stati selvaggiamente sterminati durante la Shoah. In Polonia, il paese più colpito dalla guerra, un sesto della popolazione ha perso la vita, una vittima su due era di origine ebraica. Con 27 milioni di vittime fu l'Unione Sovietica a registrare il maggior numero di morti in guerra.
La fine della guerra ha significato sia la liberazione che l’inizio di una nuova era di violenza in Europa segnata da spartizioni di territorio, espulsioni, innumerevoli rifugiati e sfollati, nuove occupazioni e, in particolare sul territorio dell’Unione Sovietica e nella parte orientale dell’Europa, da nuove annessioni e purghe etniche, da altre ideologie e, ancora una volta, da interferenze e oppressione. Il continente non è stato liberato dalla violenza, ma ha visto nascere un nuovo ordine nella violenza. La Seconda guerra mondiale finì per concludersi nel 1989, al momento della caduta della cortina di ferro, ma prima c’era stato il ponte aereo di Berlino nel 1948, la fondazione della Comunità del carbone e dell’acciaio nel 1952, la rivoluzione ungherese del 1956, la costruzione del muro nel 1961 e la Primavera di Praga nel 1968.
Fino al 1989 vigeva un’opposizione tra le società libere, prospere sul piano economico, e le società totalitarie che, dietro le apparenze di democrazia (autoproclamata), in realtà limitavano sotto molti aspetti le libertà individuali e collettive avanzando le proprie giustificazioni ideologiche. Anche la Dichiarazione universale dei diritti umani - principale conquista del dopoguerra - è stata strumentalizzata a livello politico. Ancora una volta, non furono i diritti uguali di ogni persona in ogni luogo a prevalere, bensì i poteri politici che decidevano chi poteva vivere in pace e libertà e chi invece si vedeva negare questi diritti.
L’Europa ha una storia comune, ma non ha una memoria comune. Le storie personali che segnano la vita di un individuo non compaiono in nessun libro di storia e non sono protette né dall’oblio né dalla repressione. La sofferenza, il dolore, la perdita, l’odio, la vendetta, il senso di colpa e la vergogna non si riducono a semplici fatti storici. I ricordi non sono neutrali e non possono essere ridotti a nessun comune denominatore storico. Sono raccontati, condivisi, interpretati, possono unire e dividere. I ricordi polarizzano quando vengono utilizzati per legittimare la propria visione del mondo.
I brutti ricordi hanno un potere di riconciliazione se impongono non l’uniformità, ma il rispetto reciproco che permette di sopportare e riconoscere le ambivalenze. La pace e la riconciliazione non si ancorano al consenso costruito a tavolino, ma alla volontà sinceramente condivisa di coltivare la memoria degli uni e degli altri, in modo differenziato, nel rispetto delle contraddizioni e nonostante le provocazioni. Rifiutare a una persona o a un gruppo di ricordare il proprio passato equivale a contestare il proprio posto nel mondo. Il rifiuto del diritto alla memoria e l’assenza di confronto con il passato costituiscono il terreno di nuove ingiustizie nel presente.
La Comunione di Chiese protestanti in Europa (CCPE) riunisce chiese che intrattengono rapporti diversi con la storia segnata dalla violenza dell’Europa del XX secolo e che non hanno affatto subito le conseguenze della guerra allo stesso modo. Le situazioni di conflitto nazionali, etniche e sociali si riflettono direttamente nelle chiese membro. Queste chiese hanno messo fine a mezzo secolo di discordie legate alla Riforma ratificando la Concordia di Leuenberg nel 1973, in piena Guerra Fredda. Con questo gesto hanno saputo costruire ponti, oltre i muri politici dell’Europa divisa. La CCPE ha avuto successo perché ha professato un’unità che la politica non può creare, né impedire: l’unità della Chiesa di Gesù Cristo, nella Parola e nei sacramenti, nella testimonianza e nel servizio. La CCPE si concepisce come uno degli anelli del processo europeo di unificazione e come una delle sue molle, perché vede nell’Europa uno spazio di responsabilità che deve assumere la sua eredità storica.
Oggi, ottant’anni dopo, e in seguito all’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina, la prospettiva di un’Europa pacifica, già svanita con la guerra in Jugoslavia, si allontana ancora di più. Senza dimenticare altri fattori che hanno effetti deleteri: tendenze autoritarie, neonazionalismo, narrazioni di vendetta basate sulla storia, politica economica isolazionista, ritiri da accordi internazionali, crescente sfiducia nei confronti della partecipazione democratica. L’idea europea di rendere impossibile la guerra creando interdipendenze economiche, sociali e culturali, subisce pressioni interne ed esterne, ed è messa in discussione da interessi nazionali, narrazioni populiste, sufficienza moralizzante e pseudo-verità fabbricate da zero. Il progetto europeo, caratterizzato dall’ordine democratico e dallo Stato di diritto, è tornato ad essere un progetto contestato, e le chiese sono al centro di questa tempesta.
Ciò che unisce la CCPE non sono interpretazioni uniformi, ma è l’impegno a discutere seriamente, senza rimanere sordi alla contraddizione, senza reprimerla, ma prendendola sul serio. La commemorazione dell’8 maggio 1945 serve la stessa causa. Questa giornata della memoria permette di evocare la resistenza: contro la banalizzazione della colpa, contro la relativizzazione dei diritti umani, contro il cinismo delle logiche amico-nemico. Secondo una comprensione biblica ed evangelica, la pace è legata alla difesa della giustizia, in cui la violenza sia riconosciuta per quella che è, e in cui le ritorsioni e i conflitti non siano sottaciuti, bensì elaborati. Ciò richiede un lavoro di memoria che non relativizzi ma differenzi, affinché la dignità di ogni persona non diventi ancora una volta merce di scambio di politiche disumane. Ciò richiede la volontà di comprendere le preoccupazioni degli altri e di creare una cultura della fiducia in cui sia possibile parlare con franchezza permettendo così la riconciliazione. (CCPE, 29 aprile 2025)