Donne in Afghanistan: non ci arrendiamo

Tra resistenza e speranza, un racconto dalla Kabul governata dai talebani

04 aprile 2022

Famiglia afghana (foto: Wanman Uthmaniyyah/unsplash)

Lo scorso mese d’agosto, i talebani hanno preso il potere in Afghanistan. Fame, freddo e disperazione sono onnipresenti. Ma ci sono anche segni di resistenza e di speranza, come racconta una donna afgana che vive a Kabul e collabora con un’organizzazione non governativa internazionale. Riproduciamo qui la sua testimonianza pubblicata dalla rivista Global di Alliance Sud. Per motivi di sicurezza la donna ha preferito rimanere anonima.

(ve/global) Depressa, disperata, impotente. Ecco come mi sono sentita nei momenti peggiori, i primi due mesi dopo l’ascesa al potere dei talebani. Certo, sono sempre disperata. Ma cerco anche di motivarmi e di farmi coraggio. E ho di nuovo più energia rispetto all’autunno. In quel periodo, dominavano lo shock, la collera, il caos e la paura. Una grande paura per ciò che sarebbe potuto accadere.
La presa del potere da parte dei talebani non è stata veramente una sorpresa. Sapevamo che poteva succedere. E noi donne, in questi ultimi anni, eravamo consapevoli del fatto che non potevamo considerare le nostre libertà come scontate e che i nostri diritti avrebbero potuto, in qualsiasi momento, essere nuovamente cancellati. È senz’altro per questo motivo che la maggior parte delle ragazze andava a scuola con molto entusiasmo e motivazione, e che la maggioranza delle donne lavoravano con passione. Poi, quando in agosto sono ritornati i talebani, specialmente le donne sono state di colpo private di tutte le loro prospettive.

Atmosfera di paura, tristezza e collera

Nella mattina di quel giorno in cui tutto è precipitato, avevo portato le mie nipoti all’asilo. Come la maggior parte delle persone qui a Kabul, vivo in una casa, circondata da una grande famiglia: mia madre, due fratelli, una cognata, tre nipotine e un nipote. Le bambine hanno tra i cinque e i sette anni. Perciò le ho accompagnate all’asilo, che dista una decina di minuti da casa nostra, nel centro cittadino di Kabul. Nelle strade regnava una strana atmosfera, ma non sospettavo ancora nulla di ciò che sarebbe successo. 
Sulla via del ritorno, ho voluto prelevare del denaro che dovevo portare a mia madre, ricoverata in ospedale in seguito ad una grave infezione dovuta al Covid. Ma dal distributore non è uscita nessuna banconota. Sono quindi rientrata a casa. Ed è lì che ho sentito la notizia che avevano raggiunto la periferia di Kabul, che quindi erano arrivati e avevano liberato i prigionieri. La paura e il panico si sono impossessati della popolazione, provocando rapidamente un caos enorme nelle strade. Per fortuna sono riuscita a fare in modo che qualcuno andasse a prendere le mie nipoti all’asilo. Poi un sentimento di paura è calato improvvisamente sulla città. Il passato ci aveva mostrato ciò che potevamo aspettarci dai talebani.  
Durante il primo mese, siamo rimasti in casa, piangevamo spesso o discutevamo su chi avrebbe potuto rifugiarsi e dove. E anche sul come l’avrebbe fatto. Le evacuazioni sono state caotiche. 
Intanto, moltissime persone avevano perso il loro lavoro: ex impiegati del governo e alcuni collaboratori di ONG, che erano numerosi a Kabul, ma anche una gran parte delle insegnanti, poiché alle bambine sopra i 7 anni era stato interdetto di andare a scuola. Le insegnanti sono quindi diventate superflue. Nessuno si sentiva più al sicuro, non sapevamo nemmeno se si potesse uscire in strada e con quale abbigliamento. 
Un mese dopo la presa del potere, ho festeggiato i miei 41 anni. Allora siamo usciti per la prima volta. Accompagnati da un sentimento strano, di quasi normalità, ma nulla era più come prima. Ogni membro, o quasi, della mia famiglia ha perso il proprio lavoro. Una delle mie cugine lavora ancora come medico, tuttavia è costretta a farlo con un velo integrale e il suo salario è stato ridotto d’un terzo. Io finanzio una gran parte della famiglia. Ma non sappiamo per quanto tempo ciò basterà ancora. In Afghanistan la miseria aumenta di giorno in giorno, milioni di persone non hanno né cibo, né la possibilità di riscaldarsi.

La vita s’è tramutata in lotta

Come donna, posso spostarmi in pubblico coprendomi il capo, come facevo in passato. Accompagno di nuovo le mie nipoti all’asilo e ogni tanto le porto al parco giochi. Ma la vita non è più una vita, s’è trasformata in una lotta. Non abbiamo prospettive, ci battiamo per sopravvivere. Alcune settimane fa, una giovane donna è stata uccisa da un proiettile, a un posto di blocco, così, senza motivo, da dietro. È inquietante ed estremamente destabilizzante. Perché lo fanno? Chi sarà la prossima vittima?
Già in due occasioni, ho visto per strada dei gruppi di talebani infervorati che s’attaccavano tra di loro e che si son messi a sparare. Si sente parlare di esecuzioni semplicemente perché qualcuno ha scritto un commento giudicato inopportuno su Facebook. Ci si domanda allora perché la Norvegia e la Svizzera hanno invitato i talebani a dei colloqui? Perché non ci si rende conto che si tratta di terroristi? Cosa sa la gente in questi Paesi delle nostre esigenze? Non giudico nessuno, ma constato che le persone esterne non possono capire la nostra situazione. I negozi e i ristoranti chiudono perché non sono più redditizi, la miseria è enorme, le prospettive non sono per niente buone. Tutti soffrono. E ignoriamo se e quando la situazione migliorerà. Alcune persone si sentono abbandonate.

Kabul (foto: Sohaib Ghyasi/unsplash)

Parlare in famiglia fa bene

Certo, avrei avuto la possibilità di lasciare il Paese, proprio all’inizio, perché ho un passaporto canadese. Ma non riuscivo a decidermi, non volevo abbandonare la mia famiglia; non ce l’avrei fatta. Ma capisco tutti quelli che son fuggiti. Anche noi ci domandiamo se possiamo ancora partire, in un modo o nell’altro, ad esempio verso la Turchia. Ma solo come un’unica famiglia. Non lasciamo nessuno indietro!
Nel momento in cui scrivo, dovrei insegnare l’inglese. Ho infatti deciso di dare dei corsi online alle donne della famiglia che ne sono interessate. Una cugina si connette dall’Iran e un’altra da Londra, dove s’è rifugiata con la sua famiglia, e poi partecipano pure alcune altre donne della famiglia di Kabul. Tutte vogliono imparare l’inglese. Ci sono molte donne in Afghanistan che s’impegnano in un modo o nell’altro, opponendosi così al regime. Non ci lasciamo andare.  Ovviamente speriamo che grazie alla pressione internazionale, a noi donne, non venga tolto tutto, e che le università e le scuole riaprano, come avevano promesso. Ma non sono molto ottimista. Sono soprattutto le mie nipoti che mi motivano. Ogni mattino, quando le vedo, faccio di tutto per farle sorridere. Vederle contente rende felice anche me. Questo mi dà molta forza. E in famiglia parliamo e discutiamo costantemente di ciò che accade qui. Ci fa bene. Ci fidiamo e ci sosteniamo reciprocamente. E nulla e nessuno potrà distruggere questo! (trad.: Fabio Bossi; adat.: G. Courtens).

Afghanistan: una donna contro i talebani - Segni dei Tempi RSI

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