Un progetto ecumenico per una “cultura del litigio” in rete
L’aggressività veicolata in rete è aumentata insieme all’incremento dell'uso dei social media. E con la pandemia il fenomeno si è ulteriormente acutizzato. Come migliorare la comunicazione in internet? È possibile misurare il “tasso di costruttività” di un litigio? Nel tentativo di dare delle risposte a queste domande, due teologi tedeschi, animati da uno spirito ecumenico, hanno dato vita a un ambizioso progetto, proponendo 11 comandamenti per una “dignitosa ‘cultura del litigio’ per tempi confusi”.
A promuovere questo esperimento sono stati il teologo Johann Hinrich Claussen, incaricato culturale della Chiesa evangelica in Germania (EKD), e Joachim Hake, direttore dell’Accademia cattolica di Berlino, mediante un hashtag da far circolare sui social: #anstanddigital, che potremmo tradurre con lo slogan #educatidigitali. “Il nostro progetto mette al centro il comportamento di chi si muove in rete, e non la questione tecnologica o giuridica relativa alla lotta allo hate speech, il discorso che esprime odio”, spiega Claussen in un contributo apparso sulle pagine del mensile evangelico tedesco Zeitzeichen, chiedendosi: “Chissà se il concetto apparentemente superato di ‘educazione’ (intesa come ‘buone maniere’, ndr.) non possa avere qualche fortuna sulle reti digitali sociali, spesso assai asociali?”.
Secondo i due studiosi, un’etica contemporanea della buona comunicazione che si ispiri alla tradizione cristiana non deve puntare sulla risoluzione del conflitto a tutti i costi. “Quel che conta è creare le condizioni affinché sia possibile litigare bene, in modo costruttivo ed educato”, aggiunge ancora Claussen.
Gli utilizzatori delle piattaforme digitali lo sanno: internet non ha quasi filtri, e questo permette all’odio di circolare molto rapidamente, con la conseguente spirale di esternazioni, irritazioni, umiliazioni. Invece sarebbero richieste cautela e moderazione, compostezza e decenza. Al popolo della rete servirebbe un codice di comportamento, ma ovviamente la buona educazione, qui come altrove, non solo va imparata, ma va messa in pratica. E per fare questo, dicono Claussen e Hake, serve allenamento. Le parole chiave allora sono: fermarsi a riflettere e ridurre la pressione. “Perché è soltanto prendendo le distanze che si può avere un atteggiamento educato”, spiega Claussen.
Per allenarci a comunicare bene in rete i due teologi propongono dunque undici comandamenti, facili, non particolarmente innovativi, ma che promettono di essere efficaci. “I buoni comandamenti ci guidano verso la libertà”, sostiene Claussen. Eccoli: non indignarsi con eccessiva facilità; non giudicare; prendersi tempo; rimanere obiettivi; mantenere le distanze senza mai essere volgari; rispettare l’altro in rete; mostrare la faccia; saper apprezzare l’obiezione; indignarsi rimanendo empatici; sapersi vergognare ed evitare umiliazioni.
L’undicesimo comandamento insiste sulla capacità di saper distinguere tra le buone maniere e la legge. “È compito della legge garantire la protezione dei diritti individuali e dei dati e la trasparenza degli algoritmi, così come regolamentare il potere delle grandi piattaforme - scrive Claussen -. Invece, in linea di principio, le regole della ‘buona educazione’ non hanno forza di legge; sono solo raccomandazioni soggettive e ottengono la loro efficacia attraverso la più ampia applicazione possibile. Le carenze nella legislazione o nell’applicazione della stessa non possono essere sostituite o compensate da richieste di maggiore decenza nel comportamento. ‘Buona educazione’ e legge sono quindi sempre da distinguere l'una dall'altra”. Tuttavia, insistono i due teologi, non si tratta di bandire il conflitto da internet, ma di renderlo possibile e praticabile. Con garbo.