Il tema torna d’attualità, anche se la politica ne parla da 10 anni
(ve) La Svizzera è tra i pochi paesi al mondo che non prevede nel proprio ordinamento il divieto di simboli nazisti in pubblico. Fin qui, Consiglio federale e Parlamento hanno ritenuto che deve prevalere la libertà di espressione. Pertanto, il saluto hitleriano, la svastica e segni simili sono vietati solo se usati a scopo di propaganda. Diversi sono stati i tentativi in Parlamento. Gli sforzi politici per introdurre un divieto generalizzato vanno avanti dal 2003.
Pochi giorni fa la Commissione degli affari giuridici del Consiglio degli Stati - con una decisione presa all’unanimità - ha depositato una mozione tesa al divieto di utilizzare in pubblico simboli estremisti, come quelli nazionalsocialisti, razzisti o discriminatori. Secondo la Commissione l'interdizione non deve essere limitata unicamente ai simboli associati al nazionalsocialismo, ma deve includere anche quelli razzisti, discriminatori, estremisti e inneggianti alla violenza. La Camera dei cantoni dovrebbe trattare il tema nel corso della sessione invernale.
Con la guerra tra Hamas e Israele e il riacutizzarsi della questione israelo-palestinese in Medioriente è tornato alla ribalta l’annoso problema dei discorsi d’odio e dei simboli che li veicolano, compreso quelli antisemiti, e non solo.
Proponiamo stralci di una intervista del Kirchenbote alla direttrice della Fondazione contro il razzismo e l’antisemitismo (GRA) Stephanie Graetz (39), che insiste sul ruolo che la scuola potrebbe avere nella prevenzione e nel contrasto alle derive razziste e antisemite, ma anche sulla necessità di un divieto dei simboli nazisti.
I casi di antisemitismo sono in aumento. Le strategie di prevenzione e di lotta non stanno funzionando?
È una domanda che bisogna porsi, ma non parlerei di un fallimento generalizzato delle strategie. La nostra fondazione - tra le altre cose - è attiva sul fronte della prevenzione. Continuano a rivolgersi a noi scuole che non sanno con esattezza quali offerte ci siano. È vero che nei programmi di studio si accenna ai temi del razzismo e dell’antisemitismo, ma pare mancare una panoramica dettagliata delle offerte didattiche. In questo percepisco una lacuna, mentre al tema occorre uno spazio fisso nel programma scolastico.
“Hitler avrebbe dovuto gasarvi tutti”: è la frase che dei bambini preadolescenti di una squadra di calcio ebraica si sono sentita dire da un bambino della squadra avversaria. Casi come questo, di cui ha riferito 20 Minuten, sono scioccanti.
Sono tipicamente frasi che i bambini ripetono dopo averle sentite pronunciare da qualche adulto. Perciò penso che accanto alle scuole siamo soprattutto noi adulti ad avere il dovere di reagire alle affermazioni razziste in generale.
Il lavoro di prevenzione deve iniziare già nella scuola elementare?
Assolutamente sì. Il problema è che la Seconda Guerra mondiale viene davvero insegnata soltanto a partire dalla scuola secondaria. Tuttavia, esiste materiale didattico per i più piccoli. La nostra fondazione ha per esempio uno strumento didattico utilizzato già negli asili nido. Si tratta di tolleranza in generale. Ma ci sono anche strumenti didattici per la scuola elementare. Riceviamo molte richieste da parte di insegnanti che raggiungono i propri limiti e cercano sostegno sull’argomento.
Quanto è diffuso l’antisemitismo tra i bambini?
Probabilmente tanto quanto tra gli adulti, ma non siamo a conoscenza di studi che possano quantificarlo. Recentemente sono stata alla proiezione di un film su Anne Frank. Al dibattito che è seguito un adolescente ha detto che gli stessi ebrei erano colpevoli dell’Olocausto, perché erano diventati semplicemente troppo ricchi. Spesso i bambini sono troppo poco consapevoli dei giudizi che esprimono con tali affermazioni. Ma ripeto: i bambini sono spesso vittime del loro ambiente e spetta a noi adulti renderli attenti sulle conseguenze di certe affermazioni.
Auspica un atteggiamento più duro da parte di insegnanti o allenatori?
È difficile demandare sempre il compito agli insegnanti. Sono in primo luogo i genitori a essere responsabili dei propri figli. Ma è chiaro anche che la scuola deve diventare un esempio di tolleranza e deve evitare qualsiasi genere di discriminazione. Osserviamo che su questi argomenti bambini e adolescenti sono fondamentalmente sensibili e pieni di comprensione. L’anno scorso, per fare un esempio, abbiamo tenuto per la prima volta un corso di due giorni per adolescenti, finalizzato all’istituzione di “ambasciatori antirazzisti” nelle rispettive scuole. L’interesse e l’impegno si sono rivelati impressionanti!
L'ultimo rapporto sull’antisemitismo in Svizzera ha mostrato che il maggior incremento di casi si è verificato in rete.
L’anno precedente l’aumento dei casi online era riconducibile alla pandemia. Le misure per il contenimento della Covid-19 e anche la questione dei vaccini hanno alimentato le teorie cospirazioniste, che spesso avevano al centro ebree ed ebrei. Dietro le diverse teorie ci sono sempre le stesse affermazioni. Non appena nel mondo accade qualcosa, qualcuno se ne esce con una narrazione antisemita. Sospettano l’esistenza sullo sfondo di una potenza mondiale segreta. È un fenomeno antico che continua a imporsi ostinatamente anche nel mondo moderno. A noi preme che l’antisemitismo non finisca per diventare socialmente accettabile. Probabilmente non riusciremo a eliminarlo.
La maggior parte dei casi si sono verificati su piattaforme come Telegram. Com’è possibile contrastare il fenomeno?
La rete è un pozzo senza fondo. Per questo chiediamo chiaramente anche l’intervento della politica. Essa deve richiamare al dovere i gestori delle piattaforme quando vengono diffusi odio e teorie cospirazioniste. Telegram, per esempio, si schiera dalla parte degli utenti e non considera questo un suo compito. Perciò servirebbero chiare disposizioni legali. Per poter perseguire le piattaforme e in definitiva poter procedere contro gli utenti che diffondono l’odio. Allo stesso tempo occorre preservare la libertà di parola e non lasciar decidere alle società private che cosa si può dire e che cosa no. È una situazione estremamente complessa ed è chiaro che i discorsi di incitamento all’odio in rete rappresentano un grosso problema per la nostra società.
Nel “mondo reale” il dibattito ruota anche intorno ai simboli con cui viene apertamente mostrato l’odio verso gli ebrei, per esempio la croce uncinata. Nel rapporto sull’antisemitismo si chiede un divieto dei simboli nazisti. Ritiene realistico che si arrivi a un divieto?
Un rapporto dell’Ufficio federale di giustizia è recentemente arrivato alla conclusione che tale divieto sarebbe possibile. E in Parlamento sono attualmente pendenti diversi interventi in merito. Pertanto speriamo che l’auspicato divieto abbia una possibilità. È difficile comprendere per quale motivo in Svizzera, a differenza di altri paesi, è permesso sfilare per le strade con una bandiera con la svastica sotto il pretesto della libertà di parola. Il Tribunale federale, nella sua giurisdizione, ha operato una distinzione teorica tra l’espressione di una convinzione interiore e la promozione di un’ideologia che nella pratica non è attuabile. Noi chiediamo un divieto di questi simboli nazisti, e non parliamo solo di svastiche.
Bensì?
Ci sono anche contrassegni a prima vista meno evidenti, ma che esprimono esattamente lo stesso disprezzo per il genere umano. Nel nostro rapporto annuale sul razzismo c’è per esempio la fotografia di un pick-up che sfoggia un autoadesivo raffigurante una torre di guardia del campo di concentramento di Buchenwald. Poi c’è anche scritto: “Buchenwald, established 1937”. Una cosa così non è meno grave di una bandiera con la svastica. Perciò è necessaria una base giuridica. Bisogna essere molto chiari: nella nostra società i simboli che disprezzano il genere umano non dovrebbero essere ammessi. (intervista a cura di: Kirchenbote; trad. G. M. Schmitt; adat. G. Courtens)