Le religioni sanno ridere?

Cristiani, ebrei, musulmani e buddisti tra avversione al riso e apertura alla gioia

18 aprile 2020

(ve/pt) Anche se tutti hanno in mente qualche barzelletta sul paradiso o qualche storiella ebraica, la religione è solitamente presentata con un volto austero più che sorridente. L'idea secondo cui le religioni diffidano del riso è all'origine del romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”, in cui un monaco benedettino assassina i suoi simili per impedire loro di diffondere un testo di Aristotele sul ridere.

Sacrileghi e irriverenti
L'umorismo, comportando una parte di irriverenza, è talvolta vicino al sacrilegio, il che spiega il fatto che tutte le tradizioni spirituali si siano occupate dell'argomento con maggiori o minori irrigidimenti e paure. Eppure, il cristianesimo, l'islam, l'ebraismo e il buddismo nascondono tesori di umorismo. Arguzie della mente e del cuore che ci parlano del senso della vita e di ciò che la fede ha di più intimo. Sono molte le grandi persone spirituali che hanno fatto sorridere la fede. Ma il sorriso delle religioni resta poco conosciuto. Dai fratelli Marx a “La vérité si je mens” (film di Thomas Gilou), passando dai film di Woody Allen, tutti conoscono l'umorismo ebraico. Meno conosciute sono le sue origini e il suo posto di primo piano nella tradizione religiosa. E come stanno le cose nelle altre tradizioni?

Adamo chiede a Dio: “Signore, perché hai creato la donna così bella?”. Risponde Dio: “Ma Adamo, perché tu la possa amare!” - “Sì, ma allora perché l’hai creata così stupida?”, ribatte Adamo. “Ma perché lei possa amare te!”

Tradizioni religiose
Nella comunità ebraica si può ridere, meglio ancora se di se stessi: “Non si tratta di odio nei confronti di se stessi, ma di psicoanalisi”, afferma il regista svizzero Dani Levy. Anche nell’islam si può ridere, afferma l’arabista statunitense George Tamer, a condizione di evitare “le barzellette su Maometto e Allah, che sono vietate”. E anche nel cristianesimo si può ridere: “Gesù non se ne stava certamente sempre seduto scontroso in un angolo”, afferma lo studioso basilese delle religioni Christoph Peter Baumann. Per il buddismo, dice Fabrice Milal, della Ecole occidentale de méditation, “l'umorismo è un modo di lasciarsi andare”.

L'umorismo ebraico
Cresciuto in un famiglia ebraica, Dany Levy dice che “le battute laconiche, mordaci e ironiche erano parte della vita quotidiana di famiglia”. E prosegue: “Mentirei se affermassi che alcune battute non mi offendevano. Però, crescendo, sono diventato sempre più bravo a replicare, diventando per i miei genitori un avversario a cui non era facile tenere testa. In base al motto ‘la vendetta è dolce’, la vita con i miei è diventata più sopportabile quando ho imparato a prendermi gioco di loro. Anche nell’umorismo vi sono quindi attaccanti e difensori, feriti, persone che commettono dei falli o che devono essere trasportate fuori dal campo. Come nel calcio e, mi pesa dirlo, come nella guerra”.
“Sono pochi quelli che sanno accettare le battute su di loro, senza scomporsi”, prosegue il regista. “Credo che l’autoironia faccia in qualche modo parte dei geni ebraici. Non si tratta di una forma di disprezzo degli ebrei per se stessi, bensì di una sorta di psicoanalisi. Mostriamo in pubblico le nostre debolezze e questo ha due vantaggi: in primo luogo possiamo supporre che le battute siano fatte con amore e in secondo luogo è salutare”.
Una buona battuta è quindi un farmaco? Non tutti capiscono uno scherzo, soprattutto se ne sono la vittima. I dittatori, ad esempio, non accettano di essere presi in giro. I bambini non capiscono le battute o faticano a cogliere l’ironia. Anche la politica è stata dichiarata “zona libera dall’umorismo”. L’umorismo è dunque una questione di tolleranza. O forse prima di tutto di fiducia in se stessi?

“Sarah, eri con me quando c'è stato il pogrom a Varsavia? Sì, caro, ero con te. Eri con me quando c'è stato il pogrom a Kiev? Sì, sì, ero con te. E quando c'è stato il pogrom a Lodz? Ma, mio caro, io sono sempre con te! Sarah, Sarah, mi sa che tu mi porti jella!”

Niente battute su Allah
In seguito alla crisi delle caricature di Maometto (seguita alla pubblicazione, nel 2005, di alcune caricature del profeta nel quotidiano danese Jillands Post) è cresciuta in Europa l’idea che l’islam sia contrario all’umorismo. Ma quale islam, si chiede l’arabista George Tamer? “Non esiste un unico islam”. Come il cristianesimo, così anche l’islam si basa su scritture che contengono delle contraddizioni e che nei secoli sono state interpretate in modi diversi. “L’islam non è ostile all’umorismo”, afferma Tamer. “Ho letto di recente la collezione dei detti di Maometto”, prosegue. “Vi è addirittura scritto che Dio ride”.
Il Corano non proibisce l’umorismo e il divertimento, ma li sottomette alla fede. Se la gioia per la carità di Dio viene lodata, quella per le ricchezze che allontanano gli uomini da Dio è criticata. Agli infedeli, profetizza il Corano, verrà levato nell’Aldilà il sorriso dalle labbra. L’umorismo deve dunque essere “addomesticato” religiosamente.
Più che nel Corano, dice ancora Tamer, si trova dell’umorismo nelle Hadith, ovvero la raccolta dei detti di Maometto. Qui il profeta appare da un lato come una persona seria, priva di umorismo, dall’altro come un uomo dalla battuta pronta, che gioca con i suoi nipoti o che autorizza la musica e, nei giorni festivi, addirittura i giochi nella moschea.
Nella letteratura araba, dice l’arabista americano, si trovano parodie del Corano o citazioni volutamente sbagliate. E ci sono barzellette in cui i protagonisti ignari hanno a che fare in modo comico con riti religiosi. Si legge anche di profeti bugiardi che attraverso la loro prontezza di spirito si salvano da situazioni in apparenza senza via di uscita, ottenendo così la simpatia degli ascoltatori.
La letteratura araba comprende anche satire sui dignitari religiosi, su giudici incapaci o su falsi maestri spirituali. Attenzione però: questa ironia non mette mai in dubbio la pretesa di rivelazione del Corano o le norme religiose. “Un approccio satirico alla persona di Maometto è totalmente escluso”, ribadisce lo studioso statunitense. “E anche l’unicità di Dio non può essere mai oggetto di scherzo”. Ammesse e diffuse sono invece le barzellette sulla stoltezza o la stupidità dei musulmani, specialmente su temi come elemosina, il digiunare o il pellegrinaggio.

Mulla era gravemente malato e tutti pensavano che stesse per morire. Sua moglie portava il lutto e si lamentava. Lui restava imperturbabile. “Mulla”, chiese uno dei suoi discepoli, “com'è che tu ti mostri così calmo di fronte alla morte?” - “È molto semplice”, rispose Mulla. "Avete tutti un'aria così miserabile che quando l'angelo della morte entrerà nella stanza, probabilmente sbaglierà vittima..."

Gesù non era un musone
Nella Bibbia il verbo “ridere” compare diciotto volte, dice lo studioso basilese di religioni Christoph Peter Baumann. “Da qui a concludere che Dio abbia uno spiccato senso dell’umorismo il passo è tuttavia lungo. Anche la domanda se Gesù abbia mai riso non ha una risposta certa. Il Nuovo Testamento non parla in modo esplicito di un Gesù che ride. È tuttavia immaginabile che Gesù”, dice Baumann, “il quale banchettava frequentemente insieme a moltissime persone di ogni genere, abbia spesso offerto loro del vino e sia per questo stato considerato da alcuni gaudente e beone. Ed è ipotizzabile che se accusato di essere compare dei pubblicani e dei peccatori, abbia riso cordialmente e non si sia seduto in un angolo offeso. In ogni caso, la risata appartiene da sempre all’immagine del banchetto messianico”.
Nel cristianesimo, il rapporto con le rappresentazioni visive è più disinvolto che nell’Islam. In passato c’è stata per esempio la “Biblia pauperum”, la cosiddetta Bibbia dei poveri, e per i bambini vi sono sempre state innumerevoli Bibbie illustrate. Wilhelm Busch (1872-1908) ha raffigurato spesso, in maniera caricaturale, la chiesa cattolica romana. Jean Effel si è spinto oltre disegnando in modo disinvolto Dio, Adamo ed Eva, gli angeli e la vita in paradiso. E il filosofo Friedrich Nietzsche sosteneva: “Canti migliori dovrebbero cantarmi [i cristiani] perché io possa imparare a credere al loro redentore; e più redenti dovrebbero apparirmi i suoi discepoli”.
L’umorismo ha tuttavia il suo posto nella liturgia cristiana. Fino al 17esimo secolo era diffuso il “risus paschalis”, un elemento della messa pasquale cattolica. La Pasqua è il tempo dell’umorismo. Il riso che scaturisce dalla sconfitta e dal superamento della morte, deve diffondere serenità durante tutto l’anno. Per questo anche durante un culto si può ridere e sorridere.

Il capo chiede alla segretaria, la quale il giorno prima si era assentata dal lavoro per motivi famigliari: "Lei crede alla resurrezione dei morti?" - "Certamente, signore", risponde quella. "Meno male", commenta lui, "perché la nonna, di cui avete celebrato ieri il funerale, stamattina è passata in ufficio per portarle un saluto".

Il Budda ride di sé
“Per i buddisti”, dice Fabrice Milal, filosofo, fondatore della Ecole occidentale de méditation, “l'umorismo è un modo di lasciarsi andare”.
Nel buddismo, il senso dello humor è una forma di resistenza all'istituzionalizzazione della religione. Drugpa Kunley, una delle figure più conosciute del mondo tibetano, era un provocatore costante: non cessava di prendersi gioco dell'istituzione. Un giorno, va in un monastero deve dei monaci confessano gli atteggiamenti contrari alla prospettiva della via. Un momento dopo, nel cortile, Drugpa salta su dei sassolini, evitando le pietre grandi. Qualcuno gli chiede: “Che cosa stai facendo?” Risponde: “Faccio come voi, do molta importanza alle piccole mancanze in cui sono incorso e faccio finta di non vedere quelle grandi.” Con l'umorismo, Drugpa denuncia l'ipocrisia della situazione e permette di prendere una certa distanza.
L'umorismo buddista è strettamente connesso alla consapevolezza che la verità sfugge all'essere umano. Perciò il senso dell'umorismo, prosegue Milal, ha molto a che vedere con il fatto che l'essere umano non ha l'ultima parola, e in definitiva non decide della realtà. Questo lasciarsi andare è al centro della meditazione come la si pratica nel buddismo, il cui scopo non è distendersi o rilassarsi - come spesso si crede nel mondo occidentale - bensì consiste nel prendere coscienza del fatto che non si può dominare tutto, padroneggiare tutto. La pratica della meditazione ha favorito molto un certo senso dell'umorismo, e sono le correnti buddiste che l'hanno attuata - come quella tibetana, e lo zen -, che hanno maggiormente sviluppato il senso dell'umorismo.

Due monaci zen si apprestano ad attraversare un fiume quando una giovane donna chiede loro aiuto, spaventata dalla corrente. Uno dei due la prende sulle spalle e la porta dall'altra parte. Un'ora dopo, l'altro monaco, che non ha detto una parola, si arrabbia: “La nostra regola proibisce di toccare una donna! - Ah, sì, si ricorda il primo ridendo. Hai ragione. Ma io l'ho portata cinque minuti, mentre tu la stai portando da un'ora...”

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