Compiono 75 anni le 10 tesi contro l’antisemitismo

Frutto della Conferenza di Seelisberg in Svizzera svoltasi nell’agosto del 1947

23 agosto 2022  |  Regula Pfeifer

I partecipanti alla Conferenza di Seelisberg nel Canton Uri (foto: Archiv für Zeitgeschichte ETHZ)

La Conferenza di Seelisberg nell’estate del 1947 è considerata la culla del dialogo ebraico-cristiano. L’ebreo francese Jules Isaac chiedeva allora di ritirare l’accusa di deicidio nei confronti degli ebrei. Diversi anni dopo la richiesta otterrà ascolto anche da parte di papa Giovanni XXIII.

Intervista con Martin Steiner dell’Istituto di ricerca ebraico-cristiana dell’Università di Lucerna.

La Conferenza di Seelisberg viene descritta come la “culla del dialogo ebraico-cristiano”. Come si è giunti alla decisione di tenere la conferenza in Svizzera?
La conferenza ha avuto luogo due anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. I suoi organizzatori principali si trovavano negli USA, in Gran Bretagna e in Svizzera. In Svizzera c’era l’Amicizia ebraico-cristiana (CJA). Di qui il collegamento con la Svizzera.
Oltre ai legami internazionali con i partecipanti svizzeri ci furono altri motivi concreti per la scelta della Svizzera quale sede dell’incontro: risparmiata dalla guerra, c’erano qui le infrastrutture necessarie per organizzare un convegno internazionale. Furono inoltre decisivi la posizione centrale in Europa e il fatto di essere la sede di organizzazioni internazionali. La scelta, poi, di Seelisberg nel canton Uri, invece di Zurigo o di Ginevra, dipese, oltre che dai costi, semplicemente dal fatto che uno dei due segretari del convegno, lo svizzero Pierre Visseur, nel 1946 aveva trascorso le ferie negli alberghi Kulm e Sonnenberg.

Qual era lo scopo della conferenza?
Lo scopo era di combattere l’antisemitismo a tutti i livelli: politico, sociale e religioso. Fu questo a indurre circa 70 persone da 19 paesi a raggiungere Seelisberg. Il gruppo più numeroso era costituito dai partecipanti ebrei, seguiti dai partecipanti protestanti. I cattolici erano soltanto nove, tra cui due ebrei convertiti e una donna, Marie-Madeleine Davy, direttrice degli studi presso l’École pratique des hautes études di Parigi.

Perché la conferenza era necessaria?
Dopo la Seconda guerra mondiale permaneva nella società un’indomita mentalità antisemita; nonostante la Shoah, ossia il genocidio di ebree e ebrei da parte dei nazisti.

A chi si deve l’idea iniziale dell’incontro?
Nel 1946 si svolse nella britannica Oxford una conferenza preliminare in cui erano già rappresentate le medesime istituzioni. Tra i presenti c’era anche il pastore presbiteriano statunitense Everett Clinchy. Lui, il sacerdote cattolico John Ross e il rabbino Morris Lazaron erano noti come il Tolerance Trio, che dal 1928 girava gli USA per promuovere il dialogo interreligioso. I partecipanti decisero una replica dell’incontro incentrata sulla lotta all’antisemitismo nell’Europa del dopoguerra - che ebbe infine luogo a Seelisberg.

Gli alberghi Kulm (sin.) e Sonnenberg di Seelisberg. Cartolina con timbro del 14.6.1948 / © ETH-Bibliothek Zürich/Engelberger, Karl, PK_007380 / Public Domain Mark

Chi venne invitato?
A parte alcuni rappresentanti di organizzazioni come l’UNESCO, l’ONU o il Consiglio ecumenico delle Chiese, furono interpellati principalmente singoli individui, per esempio persone che erano state impegnate nell’aiuto ai profughi o che erano diventate profughe esse stesse. Alcuni dei partecipanti avevano perduto familiari nella Shoah. Furono anche invitati esperti nel campo della formazione e dell’antisemitismo, tra questi lo storico e ricercatore sull’antisemitismo Jules Isaac.

Quale fu il suo contributo specifico?
Nel 1943 Isaac aveva iniziato a scrivere un libro significativo. Si intitolava “Gesù e Israele”. Il libro divenne importante per Seelisberg, poiché da esso derivarono i successivi “Dieci punti di Seelisberg”. Il libro contiene 28 proposte dottrinali concernenti ciò che nella Chiesa e nella teologia deve cambiare affinché l’antisemitismo al loro interno scompaia. Su tali basi Isaac formulò 21 tesi da cui, nella terza commissione della Conferenza di Seelisberg, sono stati sviluppati i noti dieci punti.

Cosa chiedeva Jules Isaac?
Lo storico francese respingeva in particolare, storicamente e teologicamente, l’accusa di deicidio nei confronti degli ebrei. Ha avuto un ruolo anche un concetto presente nel Catechismo di Trento del 1566, secondo il quale Cristo è morto per i peccati di tutti gli uomini. Era quindi possibile argomentare teologicamente contro l’accusa di colpa collettiva degli ebrei per la morte in croce di Cristo.

Come andò a finire?
La conferenza permise la correzione della dottrina antiebraica nel cristianesimo. In particolare venne corretta l’accusa di deicidio nei confronti degli ebrei. Allo stesso tempo vennero ricordate le radici ebraiche del cristianesimo e quindi che Gesù, Maria, gli apostoli e i primi martiri erano ebrei. L’ambasciatore della Repubblica francese presso la Santa Sede, Jacques Maritain, scrisse in un messaggio di saluto ai partecipanti alla conferenza di Seelisberg che l’antisemitismo è un peccato. E che, fin quando l’Europa avesse portato dentro di sé quel peccato, non avrebbe potuto dirsi cristiana.

Martin Steiner, ricercatore dell'Università di Lucerna

C’erano altre personalità di spicco alla conferenza?
Sì, a Seelisberg si incontrarono molte personalità importanti dell’epoca. Vorrei ricordare il rabbino capo di Ginevra Alexandre Safran. Fu invitato perché in precedenza era riuscito a salvare più di 300.000 ebrei in Romania. Nel 1947, sotto il nuovo regime comunista, dovette emigrare e nel 1948 divenne rabbino capo a Ginevra. Per tutta la durata della sua vita si impegnò per il dialogo ebraico-cristiano.

Come riuscì a salvare così tanti ebrei?
A causa del sistema politico in Romania. In quanto rabbino capo era automaticamente membro del Senato romeno. In realtà, nel 1940 la qualità di membro del Senato gli venne revocata, ma mediante un’azione astuta e coraggiosa poté intervenire presso dignitari ecclesiastici e statali in favore della popolazione ebraica. Così, dopo aver sollecitato il patriarca romeno-ortodosso Nicodim Munteanu, riuscì a farlo intervenire presso il dittatore Ion Antonescu per ottenere la revoca dell’obbligo di indossare la stella ebraica. Grazie a reti diplomatiche con la regina madre Elena e il nunzio riuscì a impedire una deportazione di ebree e ebrei romeni in Transnistria.

Quale fu il contributo di Alexandre Safran alla conferenza di Seelisberg?
Fece parte della commissione che adottò i “Dieci punti”. Tuttavia è difficile stimare il contributo dato dai singoli membri, in quanto le discussioni non vennero verbalizzate.

Erano presenti altre persone che si erano distinte nell’aiuto ai profughi?
C’era la svizzera Clara Ragaz, pacifista evangelica e suffragista all’inizio del XX secolo e molto impegnata nell’aiuto ai profughi. Clara si è molto impegnata insieme con il marito e pastore Leonard Ragaz a favore del dialogo ebraico-cristiana. La sua fu tra le più significative presenze riformate alla conferenza.

Gertrud Kurz con una profuga, 1967

Quale fu il suo contributo?
Clara era vicepresidente della commissione che si occupava delle azioni nell’ambito dei servizi sociali e civici. Questa commissione, come tutte le altre commissioni, adottò una risoluzione. In essa si chiedeva che i profughi non venissero trattati soltanto come un peso, ma venissero sostenuti nella riqualificazione professionale nei settori industriale e agricolo. Alla conferenza prese parte anche la svizzera Gertrud Kurz, conosciuta come la madre dei rifugiati.

Quale fu il contributo di Gertrud Kurz?
Durante la Seconda guerra mondiale questa donna, nota per l’aiuto ai profughi, tenne una serie di conferenze pubbliche sulla persecuzione degli ebrei e sull’antisemitismo. Esortò la Svizzera a perseguire una politica dei rifugiati favorevole nei confronti delle persone ebree. Alla conferenza partecipò alla discussione della commissione sulle relazioni con le agenzie governative.

Sorsero conflitti alla conferenza?
Nella selezione degli invitati vi furono riserve nei confronti di alcuni partecipanti cristiani. Ebrei, ma anche cristiani, temevano che avrebbero svolto un lavoro di natura missionaria. Ma ciò non accadde, sebbene alcuni partecipanti cristiani avessero un atteggiamento tradizionalmente missionario o antiebraico.
Alla conferenza sorsero conflitti in merito alla questione della lotta all’antisemitismo. All’inizio molti partecipanti cristiani non vedevano quale rilevanza avessero la teologia e la Chiesa nella plurisecolare tradizione dell’antisemitismo. Per i partecipanti ebrei che avevano perduto familiari nella Shoah questa incomprensione era intollerabile. La conferenza riuscì infine a rielaborare la teologia e la dottrina cristiane in modo da rimuovere gli elementi antisemiti. Grazie ai “Dieci punti”.

13 giugno 1960, il professor Jules Isaac in udienza da papa Giovanni XXIII

Che ne è stato dei “Dieci punti”?
Il promotore delle tesi, Jules Isaac, si impegnò per tutto il corso della sua vita a favore del dialogo. Lui, che aveva perduto la moglie e la figlia in un campo di concentramento, riuscì a ottenere un’udienza da papa Pio XII, che si rivelò però fallimentare. Nel 1960 Isaac ottenne un’udienza privata di quasi mezz’ora da papa Giovanni XXIII. In quell’occasione l’ormai 83enne Jules Isaac consegnò al papa di poco più giovane di lui i “Dieci punti”, l’estratto dal Catechismo di Trento e uno dei suoi scritti. Poi chiese al papa se gli fosse lecito sperare che la Chiesa cattolico-romana avrebbe cambiato il proprio atteggiamento nei confronti dell’ebraismo. Giovanni XXIII rispose: “Lei ha diritto a più di una speranza”.

Il papa mantenne la sua promessa?
Giovanni XXIII aprì il Concilio Vaticano II. Lì venne sviluppato un documento sugli ebrei che sfociò nella dichiarazione “Nostra Aetate”.

Quale fu la reazione da parte ebrea all’impegno del papa?
Di gratitudine e di speranza. Gli interlocutori ebrei ebbero però bisogno di tempo per verificare se la Chiesa cattolica prendeva davvero sul serio il cammino intrapreso. I “Dieci punti” sono del resto stati continuamente rinnovati e integrati, fino in anni recenti, per esempio con le tesi di Berlino del 2009.

Dal 2017 Martin Steiner è assistente presso l’Istituto di ricerca ebraico-cristiana dell’Università di Lucerna. Ha studiato teologia a Vienna, Gerusalemme e Friburgo. Dal 2016 al 2019 ha collaborato con il rabbino Jehoschua Ahrens al progetto di ricerca dell’Fondo nazionale svizzero sul tema “La Conferenza di Seelisberg (1947) quale evento fondativo internazionale del dialogo ebraico-cristiano nel XX secolo” della Prof. Dr. Verena Lenzen all’Istituto di ricerca ebraico-cristiana dell’Università di Lucerna.

(da: kath.ch; trad.: G. M. Schmitt; adat.: G. Courtens)

I Dieci punti di Seelisberg

  1. Ricordare che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell’Antico come nel Nuovo Testamento.
  2. Ricordare che Gesù è nato da una madre ebrea, della stirpe di Davide e del popolo d’Israele, e che il suo amore e il suo perdono abbracciano il suo popolo e il mondo intero.
  3. Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, e i primi martiri erano ebrei.
  4. Ricordare che il precetto fondamentale del cristianesimo, quello dell’amore di Dio e del prossimo, promulgato già nell’Antico Testamento e confermato da Gesù, obbliga cristiani ed ebrei in ogni relazione umana, senza eccezione alcuna.
  5. Evitare di sminuire l’ebraismo biblico nell’intento di esaltare il cristianesimo.
  6. Evitare di usare il termine “giudei” nel senso esclusivo di “nemici di Gesù” o la locuzione “nemici di Gesù” per designare il popolo ebraico nel suo insieme.
  7. Evitare di presentare la passione in modo che la morte inflitta a Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. In effetti, non furono gli ebrei tutti a chiedere la morte di Gesù. Né solo gli ebrei ne sono responsabili, perché la croce, che ci salva tutti, rivela che Cristo è morto a causa dei peccati di tutti noi. Va ricordato a tutti i genitori e educatori cristiani la grave responsabilità in cui essi incorrono nel presentare il Vangelo e soprattutto il racconto della passione in un modo semplicista. In effetti essi rischiano in questo modo di ispirare, lo vogliano o no, avversione nella coscienza o nel subconscio dei loro bambini o di chi li ascolta. Psicologicamente parlando, negli animi semplici, mossi da un ardente amore e da una viva compassione per il Salvatore crocifisso, l’orrore che si prova in modo così naturale verso i persecutori di Gesù si cambierà facilmente in odio generalizzato per gli ebrei di tutti i tempi, compresi quelli di oggi.
  8. Evitare di riferire le maledizioni delle Scritture e il grido della folla eccitata: “Che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli”, senza ricordare che quel grido non potrebbe prevalere sulla preghiera infinitamente più potente di Gesù: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.
  9. Evitare di dare credito all’empia opinione che il popolo ebraico è riprovato, maledetto, riservato a un destino di sofferenza.
  10. Evitare di parlare degli ebrei come se essi non fossero stati i primi ad appartenere alla chiesa.

 

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