Storie di giusti e di infami

Conversazione sulla memoria, con Lia Tagliacozzo, autrice de “La generazione del deserto”

26 gennaio 2021  |  Gaëlle Courtens

Lia Tagliacozzo

<< Serve una memoria che ha sempre più necessità di rivolgersi ai piccoli ricordi, alle storie apparentemente ordinarie, e non ai grandi proclami. La memoria ha bisogno del gerundio - rammemorando; è solo se continuamente compientesi, e mai atto compiuto. Richiede sforzo di cuore, ri-cor-dare, e di testa, ram-ment-are. >>

 — Lia Tagliacozzo, "La generazione del deserto"

“Noi siamo i ‘nati dopo il passaggio del Mar Rosso’; siamo quelli che prima di arrivare alla Terra Promessa devono ancora attraversare il deserto”. Lia Tagliacozzo, esperta di cultura ebraica e autrice del recente La generazione del deserto (Manni editori), è nata negli anni sessanta, e spiega così la scelta del titolo del suo ultimo libro. Si tratta di un racconto tra il biografico e l’autobiografico, a tratti anche molto intimo, in cui intreccia sapientemente i ricordi orali della sua famiglia con documenti storici, lettere e diari dimenticati e ritrovati in fondo agli armadi. Chi legge viene accompagnato in modo non convenzionale dentro la storia della sua famiglia sia materna, che paterna - prima durante e dopo le persecuzioni degli ebrei. In particolare, Lia Tagliacozzo racconta dei giusti e degli infami che i suoi parenti hanno incontrato: di chi al rischio della propria vita ha aiutato la famiglia materna, e di chi invece ha fatto da delatore, ingannando il nonno paterno, poi deportato ad Auschwitz.

La famiglia Cividalli nel 1941, la mamma di Lia Tagliacozzo è in braccio al nonno. Scappando in Svizzera con l'aiuto di giusti, si salvarono tutti.

La famiglia materna, di origine fiorentina, si salva scappando in Svizzera con dei contrabbandieri. A Firenze, dopo l’8 settembre del 1943, il rabbino Nathan Cassuto fece chiudere la comunità ebraica e in collaborazione con la comunità valdese del pastore Tullio Vinay cominciano le attività a favore dei perseguitati che venivano fatti scappare in Svizzera. Ma, come Lia Tagliacozzo racconta nel suo libro, l’esilio in Svizzera era tutt’altro che una passeggiata. Intanto le tre figlie erano state separate all’arrivo dal resto della famiglia; sua mamma, che all’epoca aveva cinque anni e mezzo, fu collocata presso una famiglia contadina. Suo nonno ingegnere, fu messo in un campo di lavoro, sua nonna, molto malata, in un ospedale di Losanna. Finita la guerra, al rientro in Italia, ad accoglierli ci sono gli stessi giusti che avevano loro salvato la vita. E poi ci sono gli infami.

In un momento storico, in cui per motivi anagrafici stanno scomparendo i sopravvissuti alla Shoà, l’autrice ci offre un’altra prospettiva, quella della “testimone diretta di testimoni diretti”. L’abbiamo intervistata.

La generazione del deserto. Lia Tagliacozzo, perché questo titolo?

Quella del deserto è la mia generazione, i cui genitori erano bambini durante la guerra. Noi siamo i “nati dopo il passaggio del Mar Rosso”, siamo quelli che prima di arrivare alla Terra promessa devono ancora attraversare il deserto. Per arrivare alla libertà ci vogliono 40 anni di peregrinazioni. Noi siamo nati sì liberi, quando tutto era finito, ma dentro le nostre famiglie non era finito niente. Le ferite erano ancora vive. La generazione del deserto è sopravvissuta ad un progetto sistematico ed industrializzato di sterminio nella misura in cui sono sopravvissuti i nostri genitori. Loro sono sopravvissuti per caso, come tutti gli ebrei usciti vivi dalla seconda guerra mondiale, e quindi noi siamo nati con un gravame addosso: quello cioè di “meritarci” questa sopravvivenza, e di essere degni alla sopravvivenza a cui le nostre famiglie avevano avuto accesso, non per merito, ma appunto, per caso.

Diversi membri della sua famiglia paterna sono stati assassinati ad Auschwitz. Solo recentemente ha scoperto l’identità di quello che nel suo racconto definisce “l’infame”, colui cioè, che denunciò suo nonno paterno, Arnaldo Tagliacozzo, ai nazisti. Sua nonna sapeva, eppure ha sempre taciuto il nome dell'infame. Cos’ha provato quando si è imbattuta nella denuncia che fece sua nonna al commando militare di Roma dopo la guerra? Su quel foglio c’erano nome, cognome, indirizzo di quel delatore…

Ho provato una grande delusione. Speravo che una volta scoperto questo nome si sarebbe risolto tutto il dolore accumulato, il risentimento, la rabbia, la frustrazione, l’impotenza. Speravo la ferita si sanasse, e invece no. Quell’individuo era solo un infame che nella mia vicenda paga pegno per tutti gli infami che ci sono stati in questo paese. D’accordo con i miei fratelli nel libro ho deciso di scrivere solo le iniziali dell’infame. Iniziali che continuo a rimuovere: non riesco a ricordarmele.

Un elemento che ricorre spesso nel suo libro è quello dei silenzi. C’erano degli argomenti di cui nella sua famiglia non si parlava. Lei solo adolescente scopre per caso l’esistenza di una zia: suo padre aveva una sorella, Ada, che fu deportata ad Auschwitz all’età di 8 anni.

Nella mia famiglia non si parlava di Shoà, ma si diceva che i parenti erano stati “portati via”, e ho scoperto che è una cosa non solo della mia famiglia. Probabilmente, è vero, si faceva fatica a comprenderlo, e quindi a dirlo. Il silenzio che pesa più di tutti è quello che ho scoperto solo adolescente origliando una conversazione che non era destinata a me, e cioè che mio padre avesse una sorella. Questo silenzio è stato talmente potente che io non l’ho detto a mia sorella, e mia sorella non l’ha detto a mio fratello; ciascuno di noi l’ha scoperto autonomamente in momenti diversi della propria vita. Ma questa “congiura del silenzio” era una congiura a protezione reciproca. Serviva a tenere lontano il dolore, a sopravvivere. Per cui i miei non raccontavano, ma noi non facevamo domande.

Arnaldo Tagliacozzo, nonno di Lia, con i tre figli: a sinistra Nando (il padre di Lia), Davide e Ada, deportata ad Auschwitz

<< A volte oggi, lungo il cammino che conduce la mia generazione fuori dal deserto, riesco perfino a lasciarmi andare alla rabbia che provo verso i miei genitori e verso i loro non-ricordi. I loro vuoti di memoria sono buchi nella mia identità. A volte, lungo quel cammino, ho il sospetto che le mie rabbie siano in realtà le loro, la cui infanzia è stata prigioniera in Egitto. >>

 — Lia Tagliacozzo, La generazione del deserto

Lia Tagliacozzo, cosa fare con questa rabbia?

Quello che si può fare oggi è prendere questa rabbia e usarla per leggere il presente. Per saper decodificare dove esistono segnali di allarme, di razzismo, di discriminazione, di antisemitismo, di violenza, e di violenza verbale. Il mio non vuole essere un libro pacificato, perché non credo che sia tempo di stare pacificati. Al contrario, è un tempo in cui bisogna stare estremamente all’erta.

Ne sa qualcosa, Lia Tagliacozzo che recentemente, durante una presentazione del suo libro organizzata sulla piattaforma zoom, è stata oggetto di un’aggressione da parte di un gruppo neonazista inseritosi sulla piattaforma online insultandola con frasi razziste e antisemite, accompagnate da immagini di svastiche e di Hitler. La Procura di Torino ha aperto un fascicolo. 

Le sorelle Cividalli il 25 luglio 1945, appena rientrate in Italia dopo l'esilio svizzero, al centro la madre di Lia Tagliacozzo

L’intervista integrale a Lia Tagliacozzo, andata in onda a “Chiese in diretta”, settimanale ecumenico di informazione religiosa della RSI, ReteUno, può essere riascoltato cliccando qui

Insieme all’autrice parliamo di ricordi, silenzi, rabbia e sofferenza, ma anche della responsabilità morale di tramandare la propria storia alla generazione successiva, affinché i figli dei figli possano finalmente liberarsi del peso di “sopravvissuti per caso”.

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