Conversazione sulla memoria, con Lia Tagliacozzo, autrice de “La generazione del deserto”
— Lia Tagliacozzo, "La generazione del deserto"
“Noi siamo i ‘nati dopo il passaggio del Mar Rosso’; siamo quelli che prima di arrivare alla Terra Promessa devono ancora attraversare il deserto”. Lia Tagliacozzo, esperta di cultura ebraica e autrice del recente La generazione del deserto (Manni editori), è nata negli anni sessanta, e spiega così la scelta del titolo del suo ultimo libro. Si tratta di un racconto tra il biografico e l’autobiografico, a tratti anche molto intimo, in cui intreccia sapientemente i ricordi orali della sua famiglia con documenti storici, lettere e diari dimenticati e ritrovati in fondo agli armadi. Chi legge viene accompagnato in modo non convenzionale dentro la storia della sua famiglia sia materna, che paterna - prima durante e dopo le persecuzioni degli ebrei. In particolare, Lia Tagliacozzo racconta dei giusti e degli infami che i suoi parenti hanno incontrato: di chi al rischio della propria vita ha aiutato la famiglia materna, e di chi invece ha fatto da delatore, ingannando il nonno paterno, poi deportato ad Auschwitz.
La famiglia materna, di origine fiorentina, si salva scappando in Svizzera con dei contrabbandieri. A Firenze, dopo l’8 settembre del 1943, il rabbino Nathan Cassuto fece chiudere la comunità ebraica e in collaborazione con la comunità valdese del pastore Tullio Vinay cominciano le attività a favore dei perseguitati che venivano fatti scappare in Svizzera. Ma, come Lia Tagliacozzo racconta nel suo libro, l’esilio in Svizzera era tutt’altro che una passeggiata. Intanto le tre figlie erano state separate all’arrivo dal resto della famiglia; sua mamma, che all’epoca aveva cinque anni e mezzo, fu collocata presso una famiglia contadina. Suo nonno ingegnere, fu messo in un campo di lavoro, sua nonna, molto malata, in un ospedale di Losanna. Finita la guerra, al rientro in Italia, ad accoglierli ci sono gli stessi giusti che avevano loro salvato la vita. E poi ci sono gli infami.
In un momento storico, in cui per motivi anagrafici stanno scomparendo i sopravvissuti alla Shoà, l’autrice ci offre un’altra prospettiva, quella della “testimone diretta di testimoni diretti”. L’abbiamo intervistata.
Quella del deserto è la mia generazione, i cui genitori erano bambini durante la guerra. Noi siamo i “nati dopo il passaggio del Mar Rosso”, siamo quelli che prima di arrivare alla Terra promessa devono ancora attraversare il deserto. Per arrivare alla libertà ci vogliono 40 anni di peregrinazioni. Noi siamo nati sì liberi, quando tutto era finito, ma dentro le nostre famiglie non era finito niente. Le ferite erano ancora vive. La generazione del deserto è sopravvissuta ad un progetto sistematico ed industrializzato di sterminio nella misura in cui sono sopravvissuti i nostri genitori. Loro sono sopravvissuti per caso, come tutti gli ebrei usciti vivi dalla seconda guerra mondiale, e quindi noi siamo nati con un gravame addosso: quello cioè di “meritarci” questa sopravvivenza, e di essere degni alla sopravvivenza a cui le nostre famiglie avevano avuto accesso, non per merito, ma appunto, per caso.
Ho provato una grande delusione. Speravo che una volta scoperto questo nome si sarebbe risolto tutto il dolore accumulato, il risentimento, la rabbia, la frustrazione, l’impotenza. Speravo la ferita si sanasse, e invece no. Quell’individuo era solo un infame che nella mia vicenda paga pegno per tutti gli infami che ci sono stati in questo paese. D’accordo con i miei fratelli nel libro ho deciso di scrivere solo le iniziali dell’infame. Iniziali che continuo a rimuovere: non riesco a ricordarmele.
Nella mia famiglia non si parlava di Shoà, ma si diceva che i parenti erano stati “portati via”, e ho scoperto che è una cosa non solo della mia famiglia. Probabilmente, è vero, si faceva fatica a comprenderlo, e quindi a dirlo. Il silenzio che pesa più di tutti è quello che ho scoperto solo adolescente origliando una conversazione che non era destinata a me, e cioè che mio padre avesse una sorella. Questo silenzio è stato talmente potente che io non l’ho detto a mia sorella, e mia sorella non l’ha detto a mio fratello; ciascuno di noi l’ha scoperto autonomamente in momenti diversi della propria vita. Ma questa “congiura del silenzio” era una congiura a protezione reciproca. Serviva a tenere lontano il dolore, a sopravvivere. Per cui i miei non raccontavano, ma noi non facevamo domande.
— Lia Tagliacozzo, La generazione del deserto
Quello che si può fare oggi è prendere questa rabbia e usarla per leggere il presente. Per saper decodificare dove esistono segnali di allarme, di razzismo, di discriminazione, di antisemitismo, di violenza, e di violenza verbale. Il mio non vuole essere un libro pacificato, perché non credo che sia tempo di stare pacificati. Al contrario, è un tempo in cui bisogna stare estremamente all’erta.
Ne sa qualcosa, Lia Tagliacozzo che recentemente, durante una presentazione del suo libro organizzata sulla piattaforma zoom, è stata oggetto di un’aggressione da parte di un gruppo neonazista inseritosi sulla piattaforma online insultandola con frasi razziste e antisemite, accompagnate da immagini di svastiche e di Hitler. La Procura di Torino ha aperto un fascicolo.
L’intervista integrale a Lia Tagliacozzo, andata in onda a “Chiese in diretta”, settimanale ecumenico di informazione religiosa della RSI, ReteUno, può essere riascoltato cliccando qui.
Insieme all’autrice parliamo di ricordi, silenzi, rabbia e sofferenza, ma anche della responsabilità morale di tramandare la propria storia alla generazione successiva, affinché i figli dei figli possano finalmente liberarsi del peso di “sopravvissuti per caso”.