(blog ceris) Le possibilità, le scorciatoie, le facilitazioni dei grandi modelli linguistici di intelligenza artificiale (IA) affascinano. Chi lavora con testi e immagini vive tale sviluppo come una cesura. La vita lavorativa di molte persone non può più prescindere dalle applicazioni di IA. Allo stesso tempo tali applicazioni comportano un enorme impiego di risorse. Mentre ci è chiaro che un aereo al decollo produce emissioni, il problema climatico digitale rimane spesso invisibile. Date queste premesse, fare appello all’autoregolazione individuale del consumo non tiene conto della complessità ed è inefficace. Le decisioni cruciali sono politiche: per esempio, tasse energetiche sulla capacità di calcolo, sul consumo elettrico dei centri di calcolo e forse persino sul cherosene sintetico.
L’invisibile fame di energia dell’intelligenza artificiale
Chi prenota un biglietto aereo lo nota immediatamente: le emissioni di CO2 per tratta, spesso indicate in chilogrammi – trasparente, valutabile, moralmente efficace. Le cose cambiano quando si tratta di tecnologie digitali: chi pone una domanda attraverso uno strumento di intelligenza artificiale ottiene una risposta nel giro di pochi secondi. Tuttavia ciò che nel browser giunge con tale facilità mette in moto dietro le quinte un immenso apparato di calcolo – con un impatto ecologico crescente.
Già un singolo prompt a un modello linguistico come ChatGPT può produrre cinquanta volte più CO2 di una semplice ricerca in rete – a seconda della complessità della richiesta e di quante operazioni di calcolo comporta il flusso di token (TIME, 2024). Il problema è che il consumo energetico rimane invisibile. Nessuna indicazione, nessuna sensazione di consumo di risorse – nessun freno morale.
Quantità spropositate di energia
Allo stesso tempo esplode il fabbisogno energetico dell’infrastruttura. L’Agenzia internazionale dell’energia (AIE) ritiene che entro il 2030 i centri di calcolo potrebbero generare circa il 4,5% del consumo globale di elettricità (The Times/The Guardian, 2024). I maggiori propulsori di questo sviluppo? Non YouTube né Netflix, bensì applicazioni di IA come ChatGPT, Gemini o Claude, in quanto analizzano, soppesano e generano incessantemente dati, facendo passare quantità spropositate di energia attraverso le reti neurali.
Particolarmente sotto osservazione sono i giganti tecnologici Google e Microsoft. Dal 2020 entrambi hanno aumentato significativamente le loro emissioni: Google del 48% e Microsoft addirittura del 51%. La causa: una rapida crescita della richiesta di capacità di calcolo per prodotti IA (The Guardian, 2025). È vero che adottano contromisure, per esempio la rimozione di CO2 mediante processi biologici, come l’introduzione di letame nei terreni agricoli per il sequestro del carbonio, ma esperti e ONG parlano apertamente di greenwashing – troppo simbolico, troppo poco efficace, troppo tardivo (IT Pro, 2025).
Nella percezione pubblica questo lato oscuro del digitale è sorprendentemente poco considerato. Mentre i voli e il consumo di carne suscitano un certo disagio morale – e il relativo impiego di energia è chiaramente visibile – l’impronta di carbonio del proprio utilizzo dell’IA rimane astratta. Non ne percepiamo il costo. E proprio qui sta il pericolo: perché ciò che non sentiamo non lo negoziamo eticamente. E laddove non avvertiamo un carico simbolico, manca la pressione ad agire, sia a livello individuale, sia a livello sociale.
Il concetto di “impronta ecologica” è fuorviante
In molti appelli alla protezione del clima ritroviamo il vecchio auspicio: se ogni individuo cambiasse un po’ il suo comportamento – meno voli, maggiore consapevolezza, agire digitale più sostenibile – il clima potrebbe essere salvato. Tuttavia sono di frequente le imprese e la politica a promuovere quest’etica individuale – che contribuisce in modo determinante a spostare la responsabilità politica.
L’idea dell’impronta ecologica, che oggi viene spesso associata alla responsabilità individuale, non ha avuto origine nei movimenti ambientalisti, ma risale al fornitore di energia Shell, che all’inizio degli anni Duemila ha presentato deliberatamente i consumatori come la chiave per la protezione del clima. Era marketing tra i più astuti, ma tecnicamente pericoloso, perché trasferiva la colpa dal sistema alle unità di comportamento individuali.
Traffico aereo largamente sovvenzionato
Le sovvenzioni del traffico aereo sono un esempio centrale di come la responsabilità politica viene sistematicamente spostata. In Svizzera il traffico aereo è esente dalla tassa sugli oli minerali e dall’IVA in virtù di accordi internazionali come la Convenzione di Chicago del 1944. Ciò porta a massicce distorsioni del mercato e a prezzi nettamente inferiori in confronto alle alternative rispettose del clima. Una recente analisi dell’EPFL rivela che la soppressione di queste agevolazioni fiscali potrebbe ridurre le emissioni di CO2 di 1,5 milioni di tonnellate all’anno e genererebbe entrate fiscali supplementari di 1,4 miliardi di franchi – una soluzione economica win-win con significativi vantaggi per il clima.
Alla luce di ciò è chiaro: chi siede davanti al proprio portatile non vede il fabbisogno energetico dei propri prompt IA. Al contrario, il cherosene è visibile sul biglietto aereo – trasparente, tassabile, facile da ricordare. Il digitale, invece, rimane nascosto: consumo di elettricità, raffreddamento, elaborazione – tutto invisibile, senza un feedback morale immediato.
Appelli ingenui
Proprio per questo gli appelli alla consapevolezza individuale peccano di ingenuità. Abbiamo bisogno di un controllo politico – non di una predica rivolta agli individui, dalle buone intenzioni ma inefficace. Ciò di cui abbiamo bisogno:
Il comportamento dei singoli non è il criterio determinante per le istanze politiche e l’impegno politico: chi agisce “male”, proprio per questo si impegna con forza a favore di condizioni quadro politiche solide, perché sa quanto da soli siamo moralmente deboli e vede quindi più chiaramente la necessità di un cambiamento sistemico piuttosto che di un automiglioramento.
Chiesa e intelligenza artificiale
I grandi modelli linguistici – da ChatGPT a Gemini passando per Claude – sono qua. E non andranno più via. Le chiese non fermeranno l’avanzata di queste tecnologie. Ma non devono nemmeno farlo. Perché gli LLM, per quanto possano costituire una sfida, non sono un male, bensì espressione di creatività umana, conoscenza collettiva e innovazione tecnica. Offrono opportunità straordinarie. La questione non è come fermarli, bensì come imparare a conviverci al meglio.
È qui che inizia la responsabilità spirituale delle chiese. Non schiacciando istintivamente il freno morale, come se fossero l’ultima risorsa per salvare il mondo attraverso la rinuncia, bensì prendendo sul serio la complessità tecnica, sociale, politica, spirituale.
Perché ciò che l’IA fa con noi non si lascia ridurre a scelte di consumo individuali. Chi usa i grandi modelli di calcolo e linguistici non agisce automaticamente in modo irresponsabile – non più di chiunque voli, mangi o scriva. La vera domanda è: in quale ambito avviene l’utilizzo? In quali condizioni? E con quale consapevolezza delle conseguenze e della responsabilità?
Qui le chiese possono dare un grande contributo – non attraverso una morale ipocrita, bensì con l’orientamento.
Ciò che le chiese possono fare
Ma prima di tutto le chiese dovrebbero esse stesse vivere in modo visibile ciò in cui credono. E questo nel contesto della crisi climatica non significa allarmismo, bensì speranza. Non passività, bensì solidarietà con i perdenti del clima. E non ripiegamento, ma una spiritualità che incoraggi a non considerare la rinuncia una perdita, bensì un invito a una vita diversa: più lenta, più attenta, più connessa.
Perché chi prega non deve possedere tutto.
Chi crede può rinunciare senza sentirsi più povero.
E chi si sente connesso alla vita non chiederà: “Che cosa posso ottenere ancora?”, bensì: “Che cosa serve al bene comune?”.
La spiritualità diventa così forza che trasforma, non obbligo morale. Ricorda che la riduzione può essere altresì liberazione – e che è una gioia vivere con meno trovando di più: serenità, relazione, profondità. L’impegno della chiesa per l’ambiente e la sostenibilità trova espressione per esempio nel Tempo del Creato, iniziativa ecumenica che si svolge dal 1. settembre al 4 ottobre e che ispira le comunità a adoperarsi per la salvaguardia del Creato fornendo materiali, azioni e impulsi.
Sperare è d'obbligo
È facile sentirsi piccoli di fronte alle curve delle emissioni globali, alle dinamiche tecnologiche e alla paralisi politica. IA, clima, capitale – tutto sembra eccessivo, complesso, ingovernabile. E tuttavia: la speranza non è una fuga dalla realtà. È resistenza alla rassegnazione. Una sorta di fermezza spirituale.
La speranza ecclesiale non è l’ingenua attesa che tutto andrà per il meglio. È la convinzione che agire ha un senso, anche se l’esito è incerto. Che il cambiamento rimane possibile, anche se è difficoltoso. E che la responsabilità non deriva dall’assenza di difetti, ma dal radicamento nella fiducia.
Le grandi sfide etiche – dal consumo energetico digitale alla giustizia climatica fino a una corretta gestione delle tecnologia – non si lasciano vincere dalla superiorità morale. Ma esigono uno spirito che non si rassegni. Le chiese possono incarnare proprio questo; una voce che dice: “Vediamo ciò che è. Speriamo che cosa potrebbe essere. E agiamo, non perché dobbiamo, ma perché crediamo”.
Perché alla fin fine l’energia decisiva nella crisi climatica non è la potenza di calcolo, bensì l’immaginazione spirituale: la visione di una vita buona, che non è a spese di altri. Una cultura in cui di meno non significa perdita, bensì relazione. E una chiesa che ricorda che la giustizia e la sobrietà non sono un peso – bensì una promessa. (trad.: G. M. Schmitt)