Aiutare gli atleti a vedere oltre lo sport

Un incontro con Sandrine Ray ex giocatrice di hockey a livello olimpico

07 agosto 2021  |  Camille Andres

Sandrine Ray, cappellana degli sportivi (foto Paolo Tognina)

Cappellana dello sport, Sandrine Ray accompagna gli sportivi professionisti nei loro interrogativi. Poco riconosciuta, la sua funzione testimonia tuttavia della grande solitudine degli sportivi d’élite.
Sandrine Ray è stata una giocatrice della nazionale svizzera di hockey su ghiaccio e ha partecipato ai Giochi olimpici di Torino. Nel 2012 ha deciso di diventare cappellana sportiva e ha perciò intrapreso una serie di corsi di formazione presso istituti evangelici: teologia dello sport, mentoring sportivo, accompagnamento di persone vittime di violenze psichiche e sessuali.
Due anni fa è entrata a far parte del pool di cappellani dell’organizzazione cristiana svizzera Athletes in Action. Parallelamente, nell’istituto medico-sociale Béthel a Blonay, accompagna persone che soffrono di turbe psichiche insegnando loro a usare lo sport come risorsa.

Chi sono le persone che lei accompagna in qualità di cappellana?

Sono persone che spesso hanno investito la loro identità nello sport e che quindi hanno difficoltà ad aderire a una comunità di vita o di fede poiché tutto il loro tempo e le loro attenzioni sono rivolte alla loro attività, che siano professionisti oppure no. Inoltre lavoro in prevalenza con donne, perché le loro problematiche sono specifiche.

Quali sono?

La maternità… ma anche la vita di coppia. C’è sempre quest’idea di base e interiorizzata che un uomo si sposti e che la donna lo attenda a casa. Mentre il contrario è accettato meno facilmente. Alcune donne atlete possono avere difficoltà a trovare compagni che accettino il loro ritmo di vita, gli obblighi derivanti dalla loro attività.

Sandrine Ray (foto Paolo Tognina)
Come viene finanziata la sua attività?

Sia da parte delle comunità, sia da privati, con richieste di donazioni o ancora dal nostro entourage. Athletes in Action non è collegata a una Chiesa in particolare, ma al movimento internazionale Campus per Cristo, che ha filiali a Losanna e a Zurigo (vicino al Réseau évangélique suisse, la Rete evangelica svizzera, di cui condivide lo statuto, ndr.). Ai Giochi olimpici o agli eventi sportivi i cappellani presenti sono prevalentemente evangelici.

Quanto è importante per lei evangelizzare?

Dipende da che cosa si intende per evangelizzare. Dovunque io vada vi porto Dio, perché fa parte della mia vita. Ma quando incontro gli atleti mi interesso all’essere umano, accompagno le persone indipendentemente dalla loro confessione. In qualità di cappellana credente e confessante porto la mia convinzione come un modello. È questo che arricchisce gli incontri.

Una vita di fede è compatibile con il mondo della competizione?

È la questione centrale che tutti gli atleti si pongono. Come conciliare una vita di fede con le esigenze dello sport e il principio della competizione? Secondo me abbiamo talenti e doni che Dio ci ha dato. Lo sport può essere uno spazio dove metterli a frutto. Inoltre posso anche pensare che Dio mi abbia posto in questo ambiente per essere una sua testimone. Ma la fede permette anche di affrontare il fallimento. Osservo spesso due atteggiamenti: alcuni sportivi imperniano tutto il loro lavoro sulla prestazione. Di conseguenza ogni fallimento è vissuto come una crisi. Altri si concentrano sul senso di ciò che fanno e passano attraverso il fallimento in modo completamente diverso. In qualità di cappellani il nostro ruolo consiste nell’aiutare gli atleti a vedere al di là di ciò che vivono nello sport, a comprendere il senso che esiste dietro un fallimento, a conciliare prestazione e ricerca del senso.

Sandrine Ray (foto Paolo Tognina)
Ostentare le proprie convinzioni in quanto sportivi è una pratica sempre più frequente. Non vi è in ciò un rischio di proselitismo, quando il pubblico conta milioni di persone?

Quando una persona pone la propria fede in primo piano ciò a cui si farà maggiormente caso è se ciò che dice è coerente con ciò che fa. Bisogna inoltre comprendere che lo sport è un condensato della vita: si vivono cose molto più intense e la pressione è estremamente grande. Quando si vede qualcuno considerato “cristiano” esplodere su un campo non si hanno necessariamente tutti gli elementi per comprendere determinate reazioni o certi gesti. Tutto è decuplicato. La posta in gioco è enorme. Raramente un’intera carriera si gioca in un solo istante. Ma per uno sportivo un secondo può compromettere una vita consacrata all’allenamento.

Lei ha iniziato la sua attività di cappellana nel 2012. Quali sviluppi e cambiamenti constata attualmente in questo ambito?

Le reti sociali. Complicano l’identità della persona. L’atleta viene spesso ridotto alla sua funzione: sciatore, giocatore di hockey… E ciò è già difficile da accettare. Le reti comportano la creazione di un’altra immagine che, il più delle volte, non corrisponde più a chi egli è. L’esposizione implica necessariamente un giudizio, un’opinione in funzione di ciò che le persone percepiscono. Ascoltando giovani sportivi crediamo per esempio di avere a che fare con individui di talento, molto maturi davanti alle telecamere. Ma in realtà sono allenati a far questo e sono semplicemente persone che si stanno formando, che eccellono in certi ambiti, ma che stanno ancora imparando in altri e spesso immature in altri ambiti ancora.

Ha constatato un effetto #Metoo nello sport?

Mi manca la giusta prospettiva per comparare il prima e il dopo. Ma bisogna comprendere che lo sport è un ambiente molto permeabile agli abusi. Gli atleti sono spesso isolati dal loro entourage sin da piccoli e ciò li rende facili prede e spiega perché denuncino gli abusi soltanto anni dopo. Si sentono debitori nei confronti dei propri genitori, che hanno investito molto nel loro successo e talvolta hanno costruito dei veri e propri “family business” intorno a loro. Infine il sogno dell’atleta è di vincere e l'allenatore è colui che lo aiuta a realizzare il sogno. Se lo si denuncia tutto si ferma! Spesso il cappellano è l’unica persona assolutamente neutrale nella vita di un atleta, con la quale non vi è alcun conflitto di interessi.

Sandrine Ray (foto Paolo Tognina)
Oggi anche altri professionisti si occupano degli sportivi. Qual è la sua specificità?

Un coach mentale non basta. Ogni sportivo di alto livello si confronta con questioni esistenziali. Perché lo faccio? Che senso ha? Negli ultimi decenni in tutti gli sport si è diventati più veloci e più potenti. Oggi uno sciatore con la sua velocità e la sua forza può subire lesioni gravi e persino morire in caso di errore sulla pista. Domande come: “Qual è la mia identità?”, “Perché metto a rischio la mia vita?”, “Che succede se muoio?”, non sono affatto rare. Così come le situazioni in cui gli sportivi che vivono in una bolla in cui tutto è sotto controllo (dormire, mangiare, allenarsi, confrontarsi) vengono colti alla sprovvista quando la vita li raggiunge, per esempio in occasione del decesso di un familiare. Un allenatore non è attrezzato per affrontare situazioni i cui la vita prende il sopravvento sulla carriera sportiva.

Che accoglienza viene riservata ai cappellani nell’ambiente dello sport?

Negli Stati Uniti ci sono cappellani per le squadre e gli atleti in ogni università, poiché lo sport viene praticato nei campus. In Europa e in Svizzera le cose sono più complicate, la fede rientra nella sfera personale e lo sport è invece pubblico. Inoltre ogni club è privato e bisogna farsi accettare da ogni istituzione. In ogni edizione dei Giochi olimpici, dopo quelli di Monaco del 1972, dovrebbe essere allestito un “interfaith center”, un centro interreligioso, ma la sua creazione dipende dai paesi organizzatori e dev’essere rinegoziata ogni volta. Ma siamo solo all’inizio e ci vorrà semplicemente del tempo perché si affermi. (da Réformés; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)

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