La Rete compie trent'anni

L'inventore del World Wide Web, Tim Berners-Lee, spera ancora di restituire dignità alla sua creazione

30 novembre 2019

Il web nasceva trent’anni fa: il 12 marzo 1989. Dominato ormai da giganti tecnologici avidi di dati personali, parassitato da ogni genere di operazioni di manipolazione, minato dai cyber-attacchi e sul punto di essere “balcanizzato”, non è mai stato così contestato. Eppure lo scienziato britannico Tim Berners-Lee che, insieme al belga Robert Cailliau, tre decenni fa in un laboratorio svizzero inventò il principio del World Wide Web, non ha abbandonato ogni speranza.

Tim Berners-Lee

Un contratto per il web
“In trent’anni abbiamo visto il web 1.0, il web 2.0… Si è passati da un web di documenti a un web di programmi. Abbiamo assistito alla nascita di motori di ricerca incredibilmente efficaci. Il web ha conosciuto numerose evoluzioni e sarebbe sciocco pensare che il suo stato attuale sia la sua evoluzione definitiva”, dice l’informatico, insignito del premio Turing 2016, convinto del fatto che “non è troppo tardi per cambiare il web”.
Recentemente Berners-Lee ha pubblicato il suo “contratto per il web”, nel quale sono elencate le azioni che governi, aziende e comuni cittadini dovrebbero mettere in pratica per proteggere dati, privacy e combattere la violenza e le fake news.

Tim Berners-Lee nel 1987

Quando nel 1989 lei ha immaginato il web prevedeva che sarebbe diventato così importante o pensava semplicemente di dar vita a uno strumento per scienziati?
No, non era uno strumento soltanto per gli scienziati. Ho sempre voluto che fosse qualcosa di più. Volevo collegare tutto a tutto. Sin da bambino pensavo che i computer non fossero in grado di fare collegamenti, a differenza del cervello umano. Se ha una discussione in un caffè e cinque anni dopo rimette piede nello stesso posto il suo cervello farà il collegamento e lei si ricorderà della discussione. Volevo costruire qualcosa che avesse la proprietà di collegare qualsiasi cosa. Non mi aspettavo che l’avrebbero utilizzato per legare tutto. Il punto di forza del web è la sua accessibilità: qui si possono condividere articoli, immagini, filmati, dati, documenti… È per questo che ormai è tutto online.

Quali sono le principali sfide che il web deve affrontare oggi?
Qualche anno fa avrei potuto menzionare la neutralità della rete, la privacy o il rispetto delle donne. Fino a qualche tempo fa qualsiasi persona le avrebbe detto che il web era fantastico. Oggi le dirà che non è degno di fiducia, che è un luogo in cui ci si sente manipolati, dove si è perso il controllo… Ecco perché abbiamo immaginato il “contratto per il web”, che chiede, in particolare alle imprese di nuove tecnologie, di cambiare molte cose. Inoltre chiede alla gente e ai governi di discutere di ciò di cui abbiamo bisogno per rendere il web un luogo migliore e più aperto.

Pensa che il web sia minacciato?
Alcune tendenze potrebbero avere un effetto drammatico sul web. Basti pensare ad alcuni paesi che bloccano certi contenuti. Quando il web ha mosso i primi passi era tecnicamente difficile creare un grande firewall. Adesso non più. Paesi africani o del Medio Oriente hanno imitato la Cina in materia di censura. Alcuni pensano che arriveremo ad avere più web separati: uno europeo, uno cinese, uno americano. Ma obiettivo del web è di poter creare collegamenti ovunque.

Oggi a decidere del destino del web sono le grandi aziende della Silicon Valley. Che cosa si aspetta da loro?
Oggi le reti sociali sono un luogo dove molte persone vengono sfruttate, dove si fa credere loro qualsiasi cosa, dove organizzazioni politiche fanno di tutto affinché le persone votino in una certa maniera a colpi di pubblicità mirate. Bisogna ricostruire gli strumenti - come per esempio il retweet su Twitter - in modo che vengano utilizzati dalle persone in maniera costruttiva.

Uno dei problemi con i quali il web è confrontato è la manipolazione dell’informazione, volontaria o no, originata da semplici internauti o da potenze straniere. Esiste una soluzione al riguardo?
La manipolazione delle persone e dell’informazione da parte di criminali o di Stati terzi è un cyber-crimine, una cyber-guerra. È sempre esistita, ma oggi si è aggravata. Dobbiamo assicurarci che le autorità dispongano di poteri sufficienti e siano sufficientemente coordinate per combattere il cyber-crimine e vincere la guerra informatica che imperversa dietro le quinte. La sua estensione è sottostimata dalla maggior parte degli internauti.

Il cyberspazio è utilizzato dagli Stati per compiere operazioni di spionaggio e persino di sabotaggio. È realistico pensare che vi porranno fine?
Fin quando ci sarà un sistema che permette di ottenere denaro o potere, i criminali ne approfitteranno. Quando soltanto le università americane utilizzavano internet, crearono l’e-mail in maniera tale che tutti potessero leggere le e-mail degli altri. L’intero sistema era pensato per un mondo amichevole. Non appena il sistema è stato reso disponibile a tutti, lo spam è diventato un problema.

La maggior parte delle aziende sul web acquisisce dati personali e vende pubblicità. Perché, secondo lei, la difesa della privacy è stata trascurata?
Quello che la maggior parte delle persone non comprende è che i loro dati non vengono utilizzati contro di loro ma contro tutti. Lo scandalo di Cambridge Analytica ha dimostrato che i dati potevano servire a manipolare le persone affinché votassero in una determinata maniera.
Penso che le persone dovrebbero avere il controllo dei propri dati, accedervi, fare con essi cose interessanti. Il fatto che i dati personali siano immagazzinati e bloccati in silos informatici toglie potere alle persone: se voglio spostare i miei dati da LinkedIn a Facebook è troppo complicato. Le persone hanno perso il potere, in particolare quello di condividere con chi vogliono loro. Restituire potere all’individuo significa permettergli di utilizzare egli stesso software che integrino i suoi dati nella vita quotidiana, di utilizzare l’intelligenza artificiale, di trarne beneficio. Le persone non si rendono conto del potere che i propri dati potrebbero conferire loro.

Lei dice che bisogna “coltivare sane conversazioni online”. In che modo? Bisogna legiferare di più?
Non penso che servano più leggi. È qualcosa che possono fare le reti sociali. Queste possono cambiare la loro interfaccia affinché gli utenti si comportino in maniera più costruttiva. Ricorda lo scandalo che era scoppiato quando si era saputo che Facebook aveva condotto test sull’umore dei propri utilizzatori? Penso che Facebook e le altre reti sociali dovrebbero farlo continuamente. Bisogna creare reti sociali in cui gli utenti malvagi vengano rallentati e quelli che invece si comportano bene vengano favoriti.

In Europa diversi progetti legislativi (ad esempio la direttiva sul diritto d’autore o il regolamento antiterrorismo) intendono attribuire alle reti sociali la responsabilità quasi sovrana dell’eliminazione di contenuti, in particolare in modo automatizzato. Ritiene che si tratti di un progresso?
Non mi piace per niente. Sono progetti di legge inquietanti. Penso che ciò porterà all’introduzione di potenti strumenti di censura. D’altra parte credo che il diritto d’autore meriti una riforma radicale. Sono del parere che il diritto d’autore non remuneri correttamente i creatori originali delle opere. È un vero problema che va ad aggiungersi a quello dei progetti di censura automatica.

Teme una balcanizzazione del web, in cui ogni internauta avrebbe un’esperienza differente, in funzione delle leggi locali e delle abitudini culturali?
Questo web balcanizzato esiste già. Non soltanto la Cina ma anche altri paesi ricorrono alla censura. Per un certo periodo il sito del “Los Angeles Times” è stato inaccessibile in Francia perché non voleva conformarsi allo RGPD [il recente regolamento generale dell’Unione europea sulla protezione dei dati, n.d.r.]. La balcanizzazione può venire da barriere statali ma anche da problemi inattesi legati a una legge.

Che opinione si è fatto dello RGPD?
Credo che sia piuttosto buono. Ho sempre detto che si tratta di un buon modo di gestire la propria impresa. Ha mai sentito parlare del Data Transfer Project, un’iniziativa di Google, Facebook e Twitter che mira a permettere l’accesso ai propri dati e il loro trasferimento da un servizio all’altro? Non è stato creato per magia, ma è arrivato dopo lo RGPD che ha avuto un effetto internazionale e ha cambiato i dibattiti intorno ai dati personali.

Quale soluzione immagina, per esempio con Solid, il suo progetto di cassaforte digitale?
L’idea di Solid è quella di decentralizzare il web. Il problema con i silos informatici è che vi si entra per cercare una funzione e vi si resta intrappolati: se lei va su Flickr per immagazzinarvi le sue foto vi immagazzinerà tutte le sue foto. Con Solid l’immagazzinamento è separato: potrà utilizzare Flickr come un’applicazione per gestire le foto immagazzinate dove le pare, su Google Drive o su Dropbox. È un modo di restituire il potere agli utenti. Si distruggono i silos di dati. La decentralizzazione permetterà di ritornare al web delle origini, in cui tutti avevano il proprio sito web. (da: Le Monde, intervista di Martin Untersinger; trad. it. G. M. Schmitt; adat. G. Courtens e P. Tognina).

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