Uno svizzero a Hong Kong

Cappellano carcerario e professore universitario: da oltre vent'anni anni Tobias Brandner opera tra i milioni di abitanti della metropoli di Hong Kong come collaboratore ecumenico di Mission 21

24 luglio 2019

(Delf Bucher) Tobias Brandner è sulla terrazza del grattacielo “The One” a Tsim Sha Tsui. Le vetrate sulla riva opposta luccicano da Hong Kong a Caolun come stelle della Via Lattea. Brandner allunga il braccio e indica uno dei grattacieli. “Quello a destra appartiene a un ex detenuto che ho seguito”, dice e ride. Ha incontrato il magnate immobiliare nel carcere di massima sicurezza e lo ha accompagnato negli studi di teologia per corrispondenza.

Tobias Brandner

Brandner è nato in Argovia. La sete di viaggi della moglie lo ha portato a Hong Kong 22 anni fa. Da allora lavora per l’organizzazione umanitaria evangelica Mission 21 in qualità di cappellano carcerario. Esperienze di conversione, come uno svizzero trasforma delinquenti in peccatori pentiti: questo elettrizza la stampa locale e in Svizzera. Il messaggio di Brandner: affrontare i detenuti senza pregiudizi. “Anche noi persone apparentemente normali abbiamo simili abissi dentro di noi”.

Il carcere di Shek Pik

Il carcere in riva al mare
La stessa frase Brandner la dice anche ai volontari che lo accompagnano in carcere. Alla stazione della metropolitana di Tung Chung sull’isola di Lantau il gruppo di dieci visitatori sale sull’autobus. Passano accanto ai casermoni in cui alloggiano i milioni di cinesi di Hong Kong meno abbienti che tuttavia spendono per l’affitto metà del loro stipendio mensile. Improvvisamente il grigio del cemento lascia il posto al verde. E in mezzo alla boscaglia si apre la vista sul mare. Ma non è per un villaggio turistico che lì è stata creata una radura, bensì per il carcere di massima sicurezza di Shek Pik, circondato da filo spinato.

Soltanto le farfalle fluttuano attraverso la rete metallica. A pochi metri di distanza mugghia il mare che i detenuti, condannati per omicidio o spaccio di stupefacenti, non vedranno più per 20 o 30 anni. Pene severe. Perché qui, a differenza dei processi che si svolgono in molti paesi occidentali, le motivazioni e le circostanze che hanno condotto al reato non influenzano in alcun modo il procedimento giudiziario.
Prima che i visitatori riescano a raggiungere i detenuti si aprono e si chiudono sette pesanti cancelli, si ode sette volte l’urlo delle sirene e sette volte ruota il lampeggiante blu. Nel mondo diviso in due di guardie dalle uniformi verdi e di detenuti vestiti di marrone nessun detenuto ha mai superato, a tutt’oggi, quel labirinto di porte di sicurezza.

Guardie a Shek Pik

Giunti all’ultimo corridoio lo sguardo cade sulla sala comune munita di inferriate. Alcuni detenuti si sono tolti la maglia marrone. I tatuaggi sulle loro schiene donano un po’ di colore al mesto locale. Alcuni siedono letargici davanti a un apparecchio televisivo, altri hanno lo sguardo fisso nel vuoto. L’arrivo di Brandner crea movimento nel gruppo. Alcuni detenuti protendono le mani attraverso l’inferriata.
Alcuni minuti dopo i detenuti, con ciabatte di plastica ai piedi, si spostano a passo lento nel locale di fronte per la funzione religiosa. Adesso cantano insieme animatamente e indù e buddisti intonano un inno cristiano allo stesso modo dei convertiti cristiani. Durante la preghiera regna un silenzio concentrato.

Tobias Brandner a Shek Pik

Prega Gesù Cristo
Poi si formano gruppi di conversazione presieduti dai collaboratori volontari di Brandner. Un padre di famiglia indiano racconta animatamente la propria storia, come se si trovasse di nuovo davanti al giudice. Dice che alla dogana un conoscente gli ha passato un pacchetto di eroina e insiste sulla propria innocenza.
Il volontario cinese non ha intenzione di soffermarsi troppo a lungo sulla storia personale del detenuto, che si è fatto tatuare sulla pelle il credo indù con la divinità Ganesha. Di punto in bianco dice all’indiano: “Cerca di pregare Gesù Cristo”. Ma insiste sul fatto che Dio c’è per tutti, indù o buddisti, musulmani o cristiani.

Dio c’è per tutti, indù o buddisti, musulmani o cristiani

Fede contro il vuoto
I detenuti possono essere considerati quasi un riflesso di Hong Kong, una città ordinata come un villaggio svizzero. Sembrano tutti calmi e pacifici. Più tardi, durante il viaggio di ritorno, Tobias Brandner dice che in tutti questi anni da cappellano carcerario non ha praticamente mai assistito a una rissa o a un’esplosione di violenza.
Per Brandner stesso è importante schiudere uno spazio ai detenuti. Per un momento devono potersi liberare dalle rigide pastoie della vita quotidiana in carcere. Il teologo è lieto che ci siano continuamente detenuti che vogliono farsi battezzare da lui. “Ma non è questo il mio obiettivo”. In carcere con pene detentive di 20 anni e oltre la fede aiuta contro il vuoto interiore e l’assenza di prospettive.

Nessuna emarginazione religiosa
Brandner non condanna l’insolito zelo missionario delle volontarie e dei volontari che incontrano i detenuti. “Ci sono linguaggi differenti per parlare di Dio e di Gesù Cristo. Nei due decenni come collaboratore ecumenico di Mission 21 Brandner si è lasciato alle spalle la distinzione occidentale tra confessioni e stili di devozione religiosa. Lui, che personalmente si definisce “spiritualmente progressista”, accetta tanto gli evangelici conservatori quanto i pentecostali.

Tobias Brandner insegna all'università

Al lavoro in carcere Tobias Brandner affianca quello di professore di teologia presso l’Università cinese. L’ateneo si trova ai margini della città ed è immerso nel verde. Il fatto che dopo una lunga odissea sul campus abbia trovato posto una statua contestata in Cina, la “Dea della democrazia”, è come un biglietto da visita politico per l’università. La statua è una replica della dea con la fiaccola che nel 1989 troneggiò sulla piazza della Pace celeste a Pechino. Durante il massacro, di cui ricorre quest’anno il trentesimo anniversario, i carri armati non soltanto fecero a pezzi la statua, ma passarono anche sopra persone che protestavano pacificamente.

Proteste a Hong Kong

Il sogno infranto
Davanti a quella statua così carica di valore simbolico attende Derek Lam, uno studente di Tobias Brandner. La biografia del 25.enne è legata alla storia di Hong Kong. È nato lì quando la città era ancora britannica. Nel 1997 la colonia della Corona britannica passò alla Repubblica Popolare Cinese. Fino al 2047 Hong Kong avrebbe dovuto godere di un’ampia autonomia. Il motto era: “Un paese, due sistemi”. Ben presto, però, la Cina ha fatto sentire brutalmente la propria influenza nella politica, nella giustizia e nell’istruzione.
Nel 2012 il governo della città-Stato, fedele al regime, voleva introdurre nelle scuole la materia “educazione patriottica e nazionale”. Derek Lam protestò contro il “lavaggio del cervello politico”. Nel 2014 scoccò la scintilla del movimento studentesco per il movimento per la democrazia che si opponeva a una procedura elettorale imposta dalla Cina. Dopo 75 giorni quella creativa festa della democrazia ebbe fine e la polizia sgombrò gli ultimi dimostranti.

Il simbolo della protesta

Per Lam si infranse così il sogno della professione di giornalista. Sulla carta, con la formula: “Un paese, due sistemi” era stata sancita la libertà di opinione per i prossimi 50 anni. Tuttavia investitori vicini al Partito comunista cinese hanno acquisito partecipazioni nei media che ora, docili come agnelli, sono divenuti diapason del governo cittadino. Lam passò a teologia.

Nella gabbia dei compromessi
Questo passaggio di facoltà non deve sorprendere. Tobias Brandner sottolinea ripetutamente quanti cristiani impegnati erano ai vertici del movimento per la democrazia. Anche Joshua Wong, divenuto un simbolo del  movimento studentesco, era uno di loro. Una volta disse in un’intervista: “Sono cristiano e penso che dobbiamo essere il sale della terra e la luce del mondo”.
Derek Lam è seduto nella cappella dell’università per seguire il culto serale. Professori della facoltà di teologia e studenti cantano la Preghiera della serenità: “Dio, dammi la grazia di accettare con serenità le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare e la saggezza per conoscere la differenza”. Nel 2014 non si riuscì a riconoscere le cose che non potevano essere cambiate? Non era chiaro fin dall’inizio che il governo centrale non avrebbe concesso alcun suffragio universale all’insubordinata ex colonia?

Barricate dei manifestanti

Lam valuta in modo positivo gli sforzi del movimento nonostante le questioni critiche: “All’epoca uscimmo dalla gabbia dei luridi compromessi”. In quei 75 giorni si formò l’identità democratica delle cittadine e dei cittadini di Hong Kong. Il 6 giugno di quest’anno, per esempio, anniversario del massacro di Tienanmen, hanno manifestato energicamente contro il regime autoritario del partito unico cinese e i suoi massicci interventi nella politica di Hong Kong.

Cristiani per la democrazia
Sulla terrazza del “The One” con vista sulla verticale cementificata del profilo di Hong Kong domandiamo a Tobias Brandner: “Gli studenti erano ingenui nel 2014?” “In termini di pragmatismo politico certamente”, risponde. Tuttavia li sostenne. “Lo Spirito Santo soffia dove vuole”, dice Brandner e ricorda come fosse imprevedibile il boom del cristianesimo per i missionari svizzeri quando nel 1949 Mao li espulse dalla Cina. Non si escludono svolte sorprendenti anche in futuro.

Nel futuro di Hong Kong potrebbero esserci svolte imprevedibili

Tobias Brandner vive a Hong Kong con la sua famiglia ormai da 22 anni. La città è diventata la casa dei suoi tre figli, due dei quali sono nel frattempo andati a studiare a Zurigo e a Costanza. La coppia vive privilegiata nel campus dell’università, circondata dal verde e presumibilmente vi rimarrà fino alla pensione. Ma per la vecchiaia faranno ritorno in Svizzera: “Anche solo per motivi economici”, dice Tobias Brandner. “Persino a Zurigo gli affitti sono meno cari che a Hong Kong”. (reformiert.; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)

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