Giorno della Memoria scommettere sull'uomo

Intervista al rabbino italiano Haim Fabrizio Cipriani

27 gennaio 2022  |  Luisa Nitti

Haim Fabrizio Cipriani (des.) - foto: P. Tognina

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare", ha scritto Primo Levi, sopravvissuto alla deportazione ad Auschwitz, "le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre”. Prende avvio da questa citazione l'intervista al rabbino Haim Fabrizio Cipriani, sul tema della memoria.

Riflettendo sulle parole di Levi, dobbiamo concludere che il Giorno della Memoria proponga un compito impossibile? Come possiamo ricordare ciò che non può essere umanamente compreso?

A volte i compiti impossibili sono comunque necessari. Io ho anche l’impressione che ricordare sia necessario proprio laddove c’è l’impossibilità di una piena comprensione. In un certo senso, se la comprensione fosse davvero possibile, potremmo evitare di ricordare, perché ogni insegnamento sarebbe debitamente introiettato. Invece non possiamo farlo. E qualcosa di simile per altro avviene anche nella vita spirituale e nella vita religiosa, in cui il senso profondo di alcuni atti è in realtà celato e ci rimane nascosto. Per cui abbiamo bisogno di creare forme di ritualità e di celebrazione proprio a causa di questa impossibilità di comprensione. Molti atti religiosi si basano su questo. Dobbiamo ricordare costantemente ciò che non possiamo comprendere pienamente.

Haim Fabrizio Cipriani (foto: P. Tognina)
Perché è ancora importante oggi celebrare il Giorno della Memoria?

Perché questa memoria deve andare a sopperire all’impossibilità di una piena comprensione. Impossibilità che ci pone in potenziale pericolo anche di riproduzione di una serie di eventi. Con il passare del tempo c’è un rischio di confusione, di manipolazione, che è sempre più forte. Penso che si tratti soprattutto di trasmettere ai più giovani, a chi non c’era, ciò che è accaduto, ma anche di risvegliare in chi non c’era la coscienza etica e l’attenzione verso chi è in posizione di fragilità e di discriminazione e quindi è sempre più in pericolo.

Per lei, ebreo che vive in quella stessa Europa in cui meno di un secolo fa fu possibile la Shoah, qual è l’intimo significato della parola “memoria”?

Il termine memoria, in ebraico, significa “atti fatti ispirandosi a quanto è stato”. Quindi non si tratta tanto commemorare attraverso delle parole, dei riti, ma agire concretamente ispirandosi a ciò che è stato. Quando penso alla memoria io penso in concreto a quello che io posso, che io devo fare in questo senso. Nel mio caso specifico significa muovermi, andare a insegnare, a condividere, a trasmettere, a riflettere e far riflettere.

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Negli ultimi anni alcuni intellettuali hanno messo in una luce critica questa ricorrenza. Penso ad esempio ad Elena Loewenthal, con il suo testo “Contro il Giorno della Memoria”, un intervento provocatorio che mette in questione la possibilità di fare memoria. Quali sono gli aspetti problematici di una ricorrenza come quella che celebriamo ogni 27 gennaio?

In effetti, come alcuni hanno messo in luce, esiste un rischio di una retorica della commemorazione e del fatto di cadere anche in una sorta di ritualità un po’ vuota e stereotipata, cosa che avviene per ogni celebrazione. Lo notiamo anche quando vediamo per esempio come oggi talvolta la Shoah viene banalizzata e manipolata. Questo è un aspetto problematico. Un altro aspetto problematico non è tanto inerente al Giorno della Memoria in sé, ma al fatto che si parli di ebrei ed ebraismo quasi esclusivamente in quel contesto. Per me questo è molto problematico perché crea un’immagine del popolo ebraico come popolo vittima, che è un’immagine falsata che finisce poi per avere un effetto negativo sia sulla percezione esterna che interna al popolo ebraico e trovo che questo non sia educativo perché alla fine c’è il rischio di ridurre il popolo ebraico al popolo minacciato di sterminio, allorché è anche molto altro.

(foto: P. Tognina)
La tragedia della Shoah mette in questione anche la relazione con Dio. Il filosofo Hans Jonas, autore de “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, afferma che dopo Auschwitz bisogna cercare nuove risposte all’interrogativo di Giobbe sulla sofferenza. Bisogna ripensare la relazione con Dio e continuare ad avere fede, malgrado il male assoluto. Si tratta di un compito praticabile?

Il riferimento alla figura biblica di Giobbe mi pare particolarmente interessante perché nel libro di Giobbe il protagonista è dipinto all’inizio del libro in una situazione di benessere, di ricchezza, ma comunque in relazione con la trascendenza divina. E dopo le sue tragedie, che conosciamo, Giobbe continua questa ricerca, in una forma necessariamente diversa. E in questo senso il compito del credente va proprio in questa direzione. Ed è possibile nel momento in cui si mette in grado di decostruire e ricostruire gli elementi della sua fede, che sono incompleti, imperfetti per antonomasia. Importante proprio il fatto che il libro di Giobbe faccia parte, nella divisione ebraica delle scritture, degli agiografi, le scritture narrative e di riflessione in cui c’è una particolarità, perché sono scritti contraddistinti da un rapporto molto particolare con la trascendenza divina e molto diversi rispetto a quello che vediamo negli altri testi, precedenti. In questa sezione vediamo un accento molto grande che viene posto sulla responsabilità dell’essere umano a cui Dio ha elargito facoltà di comprensione sufficiente per permettergli di valutare e di scegliere autonomamente. E infatti in questa sezione troviamo i testi in cui la trascendenza divina o non è nominata o non è presente o ha un ruolo molto ridotto. Quindi penso che sia anche l’idea - più che mai attuale - che certe antiche immagini della trascendenza divina vadano anche talvolta relativizzate per fare spazio a nuove immagini a nuovi paradigmi e se ne siamo in grado le nostre spiritualità possono sussistere e anche crescere.

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Per chiudere, altre parole - stavolta di speranza - pronunciate da Primo Levi in un’intervista: “Penso che valga la pena di scommettere sull’uomo, se non ci fosse questa fiducia, non varrebbe la pena di conservarsi”. L’Europa odierna, con le sue crisi umanitarie e le sue chiusure identitarie, può ancora guardare con fiducia al suo futuro?

È difficile non concordare con Primo Levi, perché non possiamo vivere senza fiducia. L’esistenza stessa dell’Europa costituisce una prima concretizzazione di un cammino importante, di allontanamento dai particolarismi e dagli sciovinismi che spesso sono stati all’origine di conflitti e di crimini di ogni genere. È vero che la situazione geopolitica dell’Europa fa sì che si trovi al centro di grandissime tensioni e il fatto di farvi fronte è forse l’elemento principale del suo futuro. E’ anche vero che oggigiorno fra i problemi comuni e condivisi c’è la pandemia, che ci ha insegnato moltissimo, ci ha insegnato che siamo tutti sotto lo stesso cielo, siamo interdipendenti, siamo vicini. Vivere senza l’altro, contro l’altro non sono più opzioni praticabili. Il fatto poi che i singoli stati debbano trascendere le loro esigenze per pensare a un organismo più grande e sviluppare un’idea di interdipendenza come diverse membra di un organismo unico, mi sembra un elemento straordinario, che dovrebbe aprire menti e cuori e anche al valore delle differenze culturali. Certamente a oggi l’Europa ha lavorato moltissimo sull’aspetto economico amministrativo, perché in un certo senso è quello più immediato ma dovrebbe diventare vettore di altro e possiamo avere fiducia che avvenga perché sono percorsi che richiedono numerose generazioni. Per parafrasare Massimo D’Azeglio, che disse che fatta l’Italia bisognava fare gli italiani, fatta l’Europa, bisogna fare gli europei. (intervista a cura di Luisa Nitti)

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