Valdesi e Covid19 quale ripresa?

Intervista con la moderatora della Tavola valdese, Alessandra Trotta

13 giugno 2020  |  Gaëlle Courtens

Moderatora della Tavola valdese Alessandra Trotta

 

Dal 14 giugno riprendono le celebrazioni religiose nelle chiese evangeliche riformate in Ticino, che hanno optato per una linea di prudenza, aprendo i loro luoghi di culto diversi giorni dopo il resto della Svizzera. In Italia, invece, paese tra i più colpiti dal coronavirus, le celebrazioni religiose all’interno dei luoghi di culto sono riprese già lo scorso 18 maggio.
Il governo Conte, che dal 4 maggio scorso ha decretato l’inizio della “fase 2”, su pressione delle comunità di fede ha approntato due tipologie di protocollo: uno con la Conferenza episcopale italiana (CEI), e l’altro - variamente declinato - con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, tra cui le chiese evangeliche.

Firma dei protocolli a Palazzo Chigi

La riapertura in Italia
La firma dei protocolli per la ripresa delle celebrazioni liturgiche e religiose, “in ossequio alle disposizioni di sicurezza stabilite per scongiurare la diffusione del contagio da COVID-19”, è avvenuta il 15 maggio a Palazzo Chigi, sede dell’esecutivo, alla presenza del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e della Ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese.
Com’è nata l’idea di un “protocollo religiosamente plurale”? Lo abbiamo chiesto alla diacona Alessandra Trotta, giurista di formazione e moderatora della Tavola valdese, l’organo esecutivo delle chiese metodiste e valdesi: “È stata una genesi importante perché le chiese rappresentate dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), fra cui anche le chiese valdesi e metodiste, hanno molto insistito con il Governo perché si creassero dei ‘tavoli plurali’, che fossero cioè rappresentate tutte le confessioni religiose presenti nel nostro paese. Nel messaggio indirizzato al governo, con cui abbiamo presentato questa forte richiesta, abbiamo utilizzato alcune parole chiave nelle quali ci riconosciamo anche nell'affrontare questo tema: responsabilità, pluralismo, solidarietà, laicità”.

Un momento importante per le relazioni tra comunità di fede, e tra le religioni e lo Stato?
In occasione della discussione che ha portato alla firma dei protocolli con le cosiddette “confessioni religiose diverse dalla cattolica”, si è creato un tavolo bellissimo, in cui erano presenti, tra gli altri, i rappresentanti delle comunità islamiche ed ebraiche, dei buddhisti e dei sikh, del mondo evangelico nella sua varietà e naturalmente anche delle chiese ortodosse. Credo che si sia sperimentato ulteriormente come il metodo dell'ascolto e del confronto che tiene conto delle specificità, sia quel che consente poi al governo di adottare soluzioni eque e veramente rispettose dei principi di eguaglianza e libertà. Questa è una cosa che le nostre chiese hanno sempre promosso e ci piace poter dire che anche in questa circostanza abbiamo seguito questo orientamento che poi è passato. Quindi siamo molto soddisfatti del modo in cui si è arrivati a questo protocollo.

In che cosa si differenzia il “vostro” protocollo da quello che il governo italiano ha sottoscritto con la CEI?
Nelle cose sostanziali non si differenzia: gli standard minimi stabiliti dal governo, che sono quelli che tutelano la salute e la sicurezza delle persone in generale, sono gli stessi per tutti. Direi che si differenzia per il linguaggio. Nel nostro caso abbiamo richiesto che fosse il più possibile rispettoso delle diverse realtà ecclesiologiche. Pertanto, c'è un riferimento che rimette alle autorità religiose responsabili all'interno di ogni singola confessione l'individuazione delle forme con le quali attuare gli standard minimi di sicurezza indicati dal governo. Una cosa rispettosa delle diverse competenze fra Stato e confessioni religiose.

Abbiamo utilizzato alcune parole chiave nelle quali ci riconosciamo anche nell'affrontare questo tema: responsabilità, pluralismo, solidarietà, laicità (Alessandra Trotta)

Per quanto riguarda l’applicazione delle misure di sicurezza nelle singole comunità, come si è mossa la Tavola valdese?
Abbiamo ritenuto di doverci assumere la responsabilità di alcune indicazioni fondamentali che abbiamo imposto a tutte le chiese, rimettendo però molte scelte attuative ai singoli consigli di chiesa, e cioè: quando riaprire, se adottare in una fase transitoria forme telematiche, quali modalità liturgiche prediligere, come gestire la sorveglianza, l'organizzazione delle pulizie, la sanificazione, l'informativa ai membri di chiesa. Una buona ripartizione di compiti ci è sembrato anche corrispondente a quello che siamo come chiesa e come riteniamo di dover funzionare.

Come chiese valdesi e metodiste avete deciso di cancellare il Sinodo annuale che tradizionalmente si svolge a fine agosto a Torre Pellice, nelle valli valdesi del Piemonte. È stata una scelta sofferta?
Sì, molto sofferta. Una decisione che come Tavola valdese abbiamo rinviato, secondo alcuni anche troppo, nel senso che fino all’ultimo abbiamo aspettato di capire se c'erano i margini per una scelta differente. Poi siamo stati costretti, responsabilmente, a rinviare il Sinodo all'anno prossimo. Nel frattempo siamo comunque impegnati a preparare la relazione sull’anno trascorso, da sottoporre alla commissione d’esame, individuando alcuni temi sui quali chiederemo al prossimo Sinodo di esprimere delle linee politiche. Tra i temi sui quali stiamo ragionando c’è anche una riforma dell’ordinamento della chiesa. L’idea è di renderlo più snello da tanti punti di vista, ma soprattutto più corrispondente al modo in cui vorremmo che la chiesa si percepisse e che vivesse la sua missione in un tempo molto cambiato rispetto agli anni ’70 in cui è stato pensato.

Gli standard minimi stabiliti dal governo, che sono quelli che tutelano la salute e la sicurezza delle persone in generale, sono gli stessi per tutti. (Alessandra Trotta)

La vostra chiesa ha molte comunità proprio nelle regioni italiane più colpite dalla pandemia, Piemonte e Lombardia...
Sì, non c'è dubbio che in alcune parti del paese le nostre chiese sono state particolarmente coinvolte e quindi c'è stato un livello di sofferenza e di dolore talmente alto, che ha coinvolto tutti nella necessità di manifestare vicinanza, ma anche di supportare il più possibile il bisogno avvertito da queste chiese di far sentire ai loro territori che noi come chiesa c'eravamo. Per esempio, per quanto riguarda la destinazione di una parte del “fondo emergenza Covid” costituito con il nostro “otto per mille” (somme tratte dalle imposte dei contribuenti, ndr.), è stato molto importante recepire le richieste da parte delle chiese di Bergamo e Brescia, due città tra le più colpite. Loro ci hanno segnalato quali interlocutori contattare per far sentire la nostra presenza agli ospedali del territorio.
L’essere costretti a lavorare nell’emergenza ha reso questo periodo veramente intenso e faticoso, ma ci ha aiutato molto la collegialità sostanziale con la quale operiamo come Tavola valdese. E poi ci ha aiutato il fatto che non ci siamo sentiti soli. Ci ha molto sorpreso ricevere tanti messaggi di solidarietà da chiese locali, consigli di chiesa, ma anche singole persone che ci hanno scritto, dicendo “vi stiamo pensando, preghiamo per voi”. Non credo che sia così scontato. Ci ha tanto incoraggiato.

Come ha vissuto in questo periodo difficile il rapporto con le chiese sorelle in Europa?
La nostra chiesa ha avvertito molta solidarietà. Forse non abbiamo ancora la distanza emotiva e razionale per poter inquadrare veramente quanto successo, in modo da trasformarlo anche a livello di proposte tra chiese europee. Lo dovremo fare nei prossimi mesi. Intanto, nell’emergenza abbiamo ricevuto tantissima solidarietà, non soltanto in termini di preghiere e di parole, ma anche in concreto. Stiamo ricevendo dei contributi economici da diverse chiese sorelle in Germania, Stati Uniti, Svizzera... E siamo stati chiamati in varie forme anche a rendere delle testimonianze, a raccontare in videoconferenza le nostre esperienze. Momenti di scambio e ascolto per cui sono molto grata.

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