Il virus, la società e l'evangelo

La crisi provocata dalla diffusione del coronavirus rinvia a paure ancestrali

03 marzo 2020  |  Antoine Nouis

La crisi del Coronavirus risveglia in noi paure ancestrali, quelle delle epidemie che potrebbero eliminare, in pochi mesi, tra il 25 e il 30% della popolazione. Certamente l'epidemia si sta sviluppando, ma ricordo che finora, sebbene occorra cautela e il peggio possa ancora arrivare, non siamo arrivati a quel punto.
Al momento in cui scrivo (2 marzo) ci sono tre morti in Francia, mentre gli incidenti stradali causano in media nove morti ogni giorno. Ci sono tremila morti in tutto il mondo mentre l'influenza - stando ai dati dell'OMS - uccide tra le 250.000 e le 500.000 persone ogni anno.
La storia delle epidemie mostra che si sviluppano molto più rapidamente nelle aree in cui le infrastrutture sanitarie sono più precarie. La Corea e l'Italia settentrionale sono colpite, ma il vero pericolo ci sarà quando a essere contaminati saranno la Siria, o i bassifondi di Manila e Nairobi.

Di fronte a questa situazione, a quale parola evangelica possiamo fare riferimento? 

La grazia e la fragilità
Abbiamo paura del coronavirus, ma - mi chiedo - perché non abbiamo paura della situazione di alcune case di cura e ospedali psichiatrici che a volte sono indegni di una società ricca come la nostra? Di fronte a questa situazione, a quale parola evangelica possiamo fare riferimento? Mi vengono in mente due testi.
Nel Vangelo di Giovanni, la prima volta che Gesù salì a Gerusalemme, fu per scacciare i mercanti dal tempio. La seconda volta che andò nella città santa, si avvicinò alla piscina di Bethesda dove c'era "una moltitudine di malati, ciechi, infermi, paralizzati" (Giovanni 5,3 ). Per Gesù, il vero luogo in cui si manifesta l'evangelo, non è il tempio con i suoi religiosi, le sue cerimonie e i suoi sacrifici, ma questa piscina dove sono riuniti tutti i malati e gli storpi di Gerusalemme.

Antoine Nouis

Nella seconda lettera ai Corinzi, l'apostolo Paolo evoca una malattia che chiama la sua spina nella carne. Nonostante la sua preghiera, non fu guarito, ma sentì una parola: "La mia grazia è sufficiente per te, perché il mio potere si compie nella debolezza" (2 Corinzi 12,9). La promessa di una grazia da accogliere anche nella sua fragilità.
La vocazione della chiesa resta quella di testimoniare una possibile presenza e grazia anche nelle nostre malattie... e persino nella nostra morte. Questo è ciò a cui dobbiamo prepararci. (dal blog di Antoine Nouis; trad. it. P. Tognina)

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