Comunità di fede sotto pressione

I legislatori cantonali raramente prendono le parti delle chiese. Anzi, da parte della politica soffia sempre più forte un vento “secolare” contro le comunità di fede.

07 settembre 2019

I politici mettono sotto pressione le comunità di fede? È quanto scaturisce da uno studio che ha esaminato l’attività parlamentare cantonale in materia di religione.
Kath.ch ha dato un’occhiata ai risultati e ne ha parlato con l’esperto di diritto religioso René Pahud de Mortanges dell’Università di Friburgo, coautore insieme a Max Ammann del recente studio dal titolo: “Religione nell’arena politica”, che ha esaminato 140 interventi parlamentari presentati tra gennaio 2010 e maggio 2018 in 15 cantoni.

René Pahud de Mortanges

La ricerca giocoforza si focalizza sui cantoni costituzionalmente competenti per la regolamentazione dei rapporti tra Stato e chiesa.

Secondo il vostro studio gli interventi parlamentari a favore delle chiese sono assai rari, ma allo stesso tempo in molte mozioni sull’islam i politici argomentano parlando di protezione della cultura “occidentale” o “cristiana”. Non è paradossale?
È in ogni caso paradossale sostenere la cultura occidentale cristiana soltanto per respingere l’islam e però non impegnarsi a favore delle chiese. Non è logico. Quando i politici scomodano il concetto di “cultura occidentale” ciò è spesso dovuto a un’avversione nei confronti dell’islam. D’altra parte, l’impegno diretto a favore delle chiese non sembra interessare i politici.

Secondo lo studio gli interventi parlamentari sono una reazione innanzitutto alla secolarizzazione e in secondo luogo al crescente pluralismo religioso. Quali conseguenze per il diritto?
In Svizzera stiamo vivendo contemporaneamente due differenti sviluppi socio-religiosi e i politici reagiscono o all’uno, oppure all’altro. Gli uni tendono a un più radicale smantellamento dell’influenza cristiana nella società e all’abolizione dei privilegi delle chiese cristiane, gli altri sono contrari a una maggiore presenza e visibilità dell’islam. Sono due preoccupazioni distinte che potrebbero modificare il sistema del diritto costituzionale relativo alla religione in direzioni diverse.

Lei e il coautore Max Ammann temete addirittura che il diritto costituzionale della religione svizzero possa diventare frammentario e disfunzionale.
In Svizzera potrebbe prodursi uno sviluppo scoordinato delle norme, segnatamente quando sulla base dei dibattiti in corso si inizia a proporre modifiche relative a singoli settori perdendo però di vista il quadro generale.

Questo vuol dire che in passato il diritto costituzionale della religione svizzero si è invece sviluppato in modo armonico?
Tendenzialmente si nota una graduale estensione del riconoscimento di diritto pubblico, nel senso che in passato lo status giuridico di una comunità cristiana è stato esteso anche ad altre chiese: nei cantoni riformati è stata riconosciuta la chiesa cattolica e nei cantoni cattolici quella riformata. Successivamente, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, sono state riconosciute anche le comunità ebraiche. Logica vorrebbe che adesso facesse seguito un ulteriore sviluppo e venissero riconosciute anche altre comunità religiose. Per questo è oggi in corso un dibattito sul riconoscimento delle comunità islamiche.

In Svizzera stiamo vivendo contemporaneamente due differenti sviluppi socio-religiosi: da un lato una forte secolarizzazione, dall'altro una crescita del pluralismo religioso

Ma se adesso si inizia a mettere in discussione il sistema del riconoscimento nel suo insieme, perché si considera superata ogni forma di sostegno pubblico delle comunità religiose, ci troviamo di fronte a una inversione di tendenza fondamentale.

È possibile che prima o poi il diritto al riconoscimento cantonale venga completamente abolito?
È questo l’obiettivo a cui mirano palesemente liberi pensatori e laicisti. Tuttavia, personalmente non credo che questa sia già l’opinione di una maggioranza in Svizzera. Molte persone - anche individui senza confessione religiosa - sono ancora dell’opinione che le comunità religiose facciano anche qualcosa di utile per la società nel suo insieme e non soltanto per i propri membri, e che per questo meritano che lo Stato continui a fornire loro un sostegno. Ma non sono in grado di dire per quanto tempo ancora sarà questa l’opinione dominante.

Molti interventi parlamentari dei politici sull’islam sono estremamente critici e vedono questa religione come una minaccia per la cosiddetta cultura occidentale o giudaico-cristiana. È compito del diritto costituzionale della religione proteggere la cultura dominante?
Non credo sia possibile proteggere una cultura con la legge. Forse è possibile garantire lo status di un’istituzione per un determinato periodo. Ma se la società nel suo insieme si allontana dai valori o dalla cultura propagandati da quella istituzione, lo Stato con le sue leggi non è nelle condizioni di cambiare le cose. Possono farlo soltanto i singoli individui, scegliendo di vivere da cristiani oppure no. Lo Stato deve garantire la libertà di religione e non può esercitare alcuna influenza al riguardo.

Però forse si vorrebbe tentare, con lo strumento del riconoscimento da parte dello Stato, di influenzare una comunità religiosa, per esempio l’islam, in una determinata direzione.
Alcuni dicono che bisognerebbe riconoscere le nuove comunità religiose, nella fattispecie l’islam, per aiutare i musulmani a integrarsi. È certamente un approccio degno di rispetto, ma non fa i conti con la realtà politica.

Riconoscere le comunità di fede per aiutarle a integrarsi?

Se si considera il riconoscimento dei cattolici nei cantoni riformati o il riconoscimento delle comunità ebraiche si nota che il riconoscimento è sempre stato il punto di arrivo di un processo di sviluppo, e non il punto di partenza. Tuttavia la prospettiva del riconoscimento può innescare interessanti processi di trasformazione interna. Le comunità di fede cominciano a ripensare non soltanto la loro organizzazione, ma anche la loro posizione nei confronti di questioni che riguardano la società nel suo complesso.
È stato così per i cattolici negli anni Sessanta del secolo scorso. Ed è dimostrato da una dettagliata analisi scientifica anche nel caso degli aleviti di Basilea Città, riconosciuti dal cantone nel 2012.

Sinagoga a Basilea

Non è quindi compito del diritto costituzionale religioso condurre al riconoscimento le comunità di fede o addirittura imporre loro tale riconoscimento?
L’imposizione è sicuramente inopportuna. Il riconoscimento è una sorta di concessione che si ottiene quando si soddisfano determinate condizioni. Se non si vuole accettare la concessione non si è obbligati a farlo. Ci sono molte comunità religiose che mantengono uno statuto di diritto privato e ne sono soddisfatte. (intervista a cura di Barbara Ludwig, kath.ch; trad. it. G. M. Schmitt; adat. G. Courtens)

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