Ruanda tra ricordo e oblio

Lo storico francese Florent Piton traccia una panoramica sul genocidio dei Tutsi del Ruanda nel 1994 rivelando aspetti inediti, come quello dell'aggressiva profanazione religiosa

03 luglio 2019

(Louis Fraysse) Accadde ventiquattro anni fa, da aprile a luglio del 1994. Nel giro di alcuni mesi oltre 800.000 Tutsi - donne, uomini e bambini -, vengono metodicamente massacrati in Ruanda. Pusillanime, l’ONU attenderà la fine del mese di maggio del 1994 per evocare un genocidio. Un genocidio che ancora oggi è poco conosciuto, spesso ridotto alla sua dimensione di “genocidio del machete”.

Colonialismo e genocidio
Lo storico francese Florent Piton, autore di "Le génocide des Tutsi du Rwanda" (edizioni La Döcouverte) inserisce quel genocidio nella lunga storia della razzializzazione dei rapporti sociali tra Hutu e Tutsi, accentuatasi durante la colonizzazione prima tedesca e poi belga. La distinzione tra Hutu e Tutsi si è irrigidita nel corso del tempo, con le élite Hutu che hanno assunto la tesi di una origine “amitica” dei Tutsi, giunti presumibilmente dall’Egitto e dall’Etiopia per sottomettere gli Hutu, i “veri” ruandesi. A più riprese nel corso del ventesimo secolo, questo razzismo antitutsi, basato sulla figura del nemico interno, è stato invocato per rinsaldare la “nazione Hutu”.

Florent Piton

Interferenze francesi
Piton, ricercatore di storia all’Università di Parigi Diderot e al Centro studi in scienze sociali sui mondi africani, americani e asiatici (CESSMA), traccia un profilo cronologico degli avvenimenti, affronta la questione della molteplicità delle trasgressioni - massacri nelle chiese, uccisioni in seno alle stesse famiglie, stupri come arma di guerra -, e mette in evidenza la dimensione geopolitica del genocidio e in particolare il ruolo svolto dalla Francia, che interviene più volte militarmente in Ruanda. Annunciata come una azione umanitaria, l’operazione Turquoise, lanciata il 23 giugno, sembra aver avuto in primo luogo un obiettivo militare, dal momento che Parigi aveva da tempo optato per il “campo” Hutu contro i guerriglieri dell’FPR (Fronte patriottico ruandese), anglofono e a maggioranza Tutsi.

Una lettura religiosa di questi massacri non può essere evitata

Il silenzio del mondo
Ricorrendo a numerosi documenti d'archivio, Piton fa luce sulla pianificazione del genocidio, di cui molti attori sul campo sono consapevoli. Ne è testimonianza il telegramma diplomatico del generale canadese Roméo Dallaire, comandante delle forze ONU in Ruanda, al consigliere militare del Dipartimento delle Nazioni Unite per le operazioni di mantenimento della pace. Datato 11 gennaio 1994, ossia tre mesi prima dell’inizio del genocidio, riferisce in merito alle confidenze di un informatore responsabile dell’addestramento di una milizia armata Hutu: “[L’informatore] ha ricevuto l’ordine di redigere un elenco di tutti i Tutsi di Kigali. Sospetta che sia allo scopo di procedere al loro sterminio. Lo dimostrerebbe il fatto che il suo organico è in grado di uccidere fino a mille Tutsi in venti minuti”. La comunità internazionale sapeva, ma non ha fatto nulla.

Ruanda dal genocidio alla riconciliazione (Segni dei Tempi RSI)

In Francia mancava ancora una sintesi storica sul genocidio dei Tutsi. Qual è il motivo per cui ha deciso di scriverla?
Si tratta di un’opera su commissione, il che significa che l’argomento gode di una nuova legittimità mentre l’evento è ancora molto poco conosciuto in Francia. Spero di far luce sullo stato delle conoscenze, ma la ricerca accademica al riguardo è appena agli inizi.

Contrariamente all’idea di massacri interetnici spontanei lei ricorda che il genocidio si inserisce in un processo a lungo termine… In che modo?
Il genocidio non era certamente programmato da decenni. Tuttavia è nel lungo periodo che si è sviluppato il quadro ideologico e politico che ha reso possibile lo sterminio: la razzializzazione  coloniale, la rivoluzione sociorazziale che nel 1959 identificò il nemico con i Tutsi, i massacri ricorrenti e successivamente la discriminazione giuridica. Il razzismo è divenuto un asse strutturante della società pur non essendo unanimemente condiviso.
Sebbene la guerra civile del 1990 segni una rottura, non è lì che ha inizio la storia del genocidio. Si produce invece una radicalizzazione dei discorsi e delle violenze. I massacri dei Tutsi da parte dei loro vicini Hutu, iniziati dopo l’abbattimento dell’aereo presidenziale il 6 aprile 1994, sono il prodotto di un lungo processo di germinazione e sono organizzati dall’apparato statale mobilitato per l’impresa genocida.

Florent Piton, le génocide des Tutsi du Rwanda

La dimensione della profanazione religiosa, estremamente aggressiva, è una caratteristica essenziale di questo genocidio. Come si spiega?
Durante il genocidio decine di migliaia di Tutsi sono stati assassinati nelle parrocchie, talvolta nelle chiese. Una lettura religiosa di questi massacri non può essere evitata. Qua e là statue raffiguranti Cristo o la vergine Maria vengono mutilate perché il loro aspetto evoca quello dei Tutsi. Alcuni estremisti spiegano che il nemico Tutsi si è barricato armato nelle chiese per lanciare attacchi: si tratta quindi soltanto di autodifesa!
Questi discorsi si inseriscono in un contesto nel quale le istituzioni religiose sono considerate ancora sotto il controllo dei Tutsi malgrado la rivoluzione del 1959. In un certo senso coloro che uccidono nelle chiese agiscono in nome della fede: pensano di “liberare” la Chiesa.

In Francia, in particolare, il negazionismo è ben radicato. Perché?
Il negazionismo non è una specificità della Francia, ma gode qui di un’ampia risonanza. È così per diverse ragioni: il fatto che la Francia è stata luogo di rifugio per alcuni responsabili di genocidi oppure la volontà, tanto a destra quanto a sinistra, di difendere la politica francese in Ruanda.
Il negazionismo “francese” è infatti in linea con il sostegno che il nostro Stato assicurò al presidente Habyarimana e in parte al governo responsabile del genocidio. Oggi alcuni indizi suggeriscono che le cose stiano cambiando, ma la strada è ancora lunga.

L’ultima parte del suo libro è intitolata “Uscire dal genocidio”. Qual è la situazione della società ruandese 24 anni dopo il genocidio?
Basta recarsi a Kigali per vedere quanto il paese, esangue a luglio del 1994, sia cambiato. Ma il genocidio rimane presente ovunque. Certo, i discorsi pubblici insistono sul successo della giustizia e della riconciliazione, ma la vita dei sopravvissuti rimane precaria, economicamente, socialmente e psicologicamente. Molto è stato fatto, ma l’“uscita dal genocidio” è un processo complesso e incompiuto. (da Réforme; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)

L’abbandono della comunità internazionale
In totale sono oltre 3.000 gli stranieri che lasciano il Ruanda nell’arco di una settimana

Le evacuazioni, eseguite in concomitanza con il disimpegno dell’ONU, sono state fortemente criticate. Le operazioni belga e francese mobilitano ciascuna tra i 400 e i 500 uomini, ai quali bisogna aggiungere un centinaio di italiani. Con i 2.500 caschi blu ancora presenti e la possibilità di ricorrere ai distaccamenti belgi, americani e francesi di stanza nei paesi limitrofi erano alcune migliaia gli uomini disponibili che non avrebbero probabilmente avuto alcuna difficoltà a porre fine ai massacri a Kigali. Gli effettivi dei miliziani e delle unità di élite delle forze armate ruandesi non superavano infatti i 4.000 uomini, peraltro molto meno equipaggiati. Fermare i massacri a Kigali sin dai primi giorni avrebbe potuto contenere le uccisioni nel resto del paese. L’evacuazione dei soli cittadini stranieri diviene inoltre oggetto di pesanti critiche, con la parola d’ordine “nessun indigeno”, nel complesso rispettata nonostante qualche atto isolato di salvataggio, a simboleggiare l’abbandono della comunità internazionale. (da "Le génocide des Tutsi du Rwanda")

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