Imparare a dire no

Perché a volte siamo incapaci di dire no a una sollecitazione? Il parere della psicologa Anne-Marie Saunal

18 giugno 2019

La più grande difficoltà dell'essere umano è di non poter dire no a sollecitazioni che pure non desidera. Le ragioni di questo paradosso sono molteplici.

Obbedienza e sacrificio
La prima va ricercata nell'infanzia. I nostri genitori, la scuola, la chiesa ci hanno insegnato a ubbidire, a dire sì “per il nostro bene”. Questo bene è equiparato a quello della famiglia, della società o della comunità. Dire sì alle sollecitazioni che da lì provengono è manifestare che si appartiene a quella entità, essere tutt'uno con essa e perfino sacrificarsi per essa. Dire no è prendere le distanze, trasgredire la legge simbolica trasmessa dal padre per correre il rischio di essere tagliati fuori, respinti e non essere più amati. È così che a cinquant'anni molti sono ancora incapaci di dire no a una richiesta dei propri genitori.

Immagine e limiti
La seconda ragione della nostra difficoltà a dire no è legata all'immagine che si vuole dare di sé. Opporre un rifiuto a una richiesta significa che non siamo onnipotenti, che abbiamo dei limiti, in termini di tempo e di energia. A volte, quando credono a un ideale, religioso o no, donne e uomini si costruiscono personaggi sempre disponibili per gli altri, al punto di dimenticare di prendersi cura di sé. Dire no a una richiesta che serve la causa equivale allora a cadere dal proprio piedistallo di militante devoto. A volte questa totale disponibilità per degli impegni pubblici maschera anche un rifiuto delle sollecitazioni dei parenti stretti, del coniuge o dei figli, necessariamente più discrete. Non saper dire no dissimula quindi a volte un'incapacità di dire sì.

Cura di sé
Eppure la maggior parte delle persone si rammarica di non poter dire no. “Il trauma del primato dell'altro” è una delle molle che glielo impediscono. Consiste, nella cultura giudaico-cristiana, nell'accordare la priorità all'altro senza rispettare sé stessi. Dire sì sforzandosi genera risentimento nei confronti di colui che ci sollecita e altera di conseguenza la relazione. Il principio di fraternità perde allora il suo significato. La seconda parte del comandamento biblico viene dimenticata: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. La cura di sé si cancella davanti all'abnegazione di sé e lo sfinimento incombe.

Nuove opportunità
Aver fatto questa esperienza cocente costituisce un'arma per imparare a non essere più un oggetto a disposizione degli altri. A che serve dire sì se è per arrivare spossati a una riunione e uscirne vuoti? Imparare a chiedere aiuto può anche permettere di dire più facilmente no. Ci apriamo così a un possibile che rimettiamo nelle mani dell'altro. Cessiamo di renderci indispensabili. Condividiamo il tempo, le responsabilità. Sperimentiamo che gli uni hanno bisogno degli altri.

La tensione tra il sì e il no, tra la cura di sé e la cura dell'altro non scompare mai, l'essenziale è riuscire a rendere fecondo questo conflitto

Questa arringa per la cura di sé non è un elogio dell'egoismo - che è la chiusura in sé. La tensione tra il sì e il no, tra la cura di sé e la cura dell'altro non scompare mai, l'essenziale è riuscire a rendere fecondo questo conflitto, cioè scegliere in parole e opere: “Che il vostro sì sia sì, che il vostro no sia no” (Matteo 5,37).

Anne-Marie Saunal

Anne-Marie Saunal è psicologa e psicanalista, tra le sue pubblicazioni: Psy, délivrez-nous du mal! pubblicato dalle Editions de l'Atelier, e Journal d'une psychanalyste heureuse, edito da Payot.

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