Rimpatriare i jihadisti?

L’interrogativo solleva molteplici sfide di ordine giudiziario, sociale e umano

28 aprile 2019

(Claire Bernole) Sarebbero 150, di cui 90 minorenni. Sono jihadisti francesi, uomini e donne, a volte con figli, i quali potrebbero - sembra essere questo l’orientamento che il governo intende seguire - far ritorno sul territorio nazionale per essere processati.

Giudicare i terroristi
Il loro caso si aggiungerà agli 83 procedimenti per terrorismo su cui la corte d’assise di Parigi dovrà pronunciarsi nei prossimi anni. “I giudici istruttori dovranno procedere caso per caso”, spiega Irène Carbonnier, ex magistrata. “I rinvii a giudizio saranno effettuati sulla base degli elementi contenuti in ciascun dossier. Tuttavia non è facile né raccogliere prove né dimostrare il grado di coinvolgimento di qualcuno”. A maggior ragione per le donne, la cui partecipazione alle azioni dello Stato islamico è spesso di natura diversa da quella degli uomini.

Come procedere?
È probabile che questi jihadisti o parenti di jihadisti saranno consegnati alla giustizia e, dopo essere stati ascoltati, messi in stato d’accusa da un giudice istruttore. Saranno allora incarcerati per il tempo dell’istruttoria. All’occorrenza, a seconda della loro situazione penale - infrazione contestata ma anche situazione personale e familiare - potrebbero essere oggetto di un controllo giudiziario o posti agli arresti domiciliari sotto sorveglianza elettronica.

Il reinserimento di queste persone è un sogno ingenuo e pericoloso?

Merito e grazia
La creazione di una procura nazionale antiterrorismo per far fronte a questa situazione senza precedenti, la seconda procura specializzata dopo la creazione della procura nazionale finanziaria nel 2013, è stata confermata da Catherine Champrenault, procuratore generale di Parigi. Al di là del procedimento giudiziario si pone la questione della competenza umana. Come preparare una eventuale accoglienza? Come lottare contro la radicalizzazione in carcere? L’inserimento o il reinserimento di queste persone può essere qualcosa di diverso da un sogno ingenuo e pericoloso? “Sono francesi. Devono dimostrare di essere buoni francesi per restare nel paese? Altrimenti perché non espellere tutti i criminali?”, chiede la pastora e cappellana carceraria Marie-Odile Wilson. “C’è una questione di merito, quindi di grazia. Crediamo nella redenzione? Ci dotiamo degli strumenti per renderla possibile?”

Cambiare è possibile?
Per Guillaume Monod “dopo aver aderito a un’ideologia estrema è possibile voltare pagina. Bisognerebbe fare di più per dimostrare che una persona può cambiare. Accade più spesso di quanto si immagini”. A sostegno di quanto affermato lo psichiatra cita qualche esempio fornito dalla storia: in Africa alla fine di un conflitto i bambini soldato non continuano a combattere da soli".

Nessuno dei bambini appartenenti alla Gioventù hitleriana riprese le armi dopo la fine della guerra e non ci fu alcuna ondata di attentati negli anni Cinquanta. Il medico è inoltre categorico: “A cinque o sei anni un bambino non ha un’opinione religiosa, ma ripete a pappagallo quello che dicono i genitori”. Addirittura insiste: “I bambini non si programmano come un computer, non sono bombe a orologeria, il lavaggio del cervello non esiste”.

Legame con i genitori
Amélie Boukhobza è più riservata: secondo lei molto dipende dall’età, dal tempo trascorso nella zona, dal livello di ideologizzazione dei genitori. “I bambini di una decina di anni d’età sono stati formati, hanno vissuto riti di passaggio che consistono spesso in atrocità, hanno assistito a scene di orrore. Come ricominciare una vita qui? Per quanto riguarda i più grandi, ci troveremo di fronte a giovani accaniti, perché cresciuti in mezzo a certe idee, in particolare quella di una guerra da combattere contro gli infedeli, l’Occidente, i suoi valori, la modernità”, ritiene l’esperta.

Secondo Amélie Boukhobza parlare di deradicalizzazione non ha senso: “Abbiamo visto che cosa ha prodotto: nulla. L’unica cosa che si può fare è prevenire”. Se una speranza sussiste, si fonda sul legame - mai completamente reciso - tra i giovani jihadisti e i loro genitori in Francia: “Anche se è intriso di collera, è l’ultimo baluardo, è l’ultimo filo che resta”, assicura Amélie Boukhobza.

Soluzioni da escogitare
Per il momento la questione del rimpatrio dei cittadini francesi unitisi a Daesh non è ancora stata risolta. In linea di principio un francese viene giudicato dalle autorità del paese in cui ha commesso l’infrazione o il reato di cui è accusato. Tuttavia le autorità giudiziarie francesi possono far valere il fatto che quando, per esempio, una donna decide di partire lo decide dalla Francia e ciò permette al paese d’origine di rivendicare una competenza concorrente a quella del paese in cui si sono svolti i fatti.

Accoglienza e giustizia
C’è ancora un altro aspetto da considerare: il fatto che la Siria e l’Iraq hanno difficoltà a garantire la giustizia sul loro territorio. “Ciò rende più utile la competenza concorrente della Francia, dove è stato possibile riconoscere i primi elementi di complicità”, aggiunge Irène Carbonnier. Pertanto l’esito dipende dal rapporto di forza tra i paesi. Alla dimensione politica della decisione si accompagna una dimensione diplomatica. “Lasciare quei bambini francesi nei campi dove si trovano attualmente ci renderebbe la vita più facile per i prossimi dieci anni, ma non staremmo innescando delle bombe?”, si preoccupa Marie-Odile Wilson. “Come per l’ecologia, lasceremmo il problema alla prossima generazione”. “Si potrebbero concepire misure giuridiche particolari per accogliere queste persone ed esaminarne i dossier", afferma Marc Renart, il quale aggiunge: “Dopotutto, per gli esiliati fiscali non abbiamo esitato ad approvare agevolazioni!”. (da Réforme; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)

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