La religione non è un'arma

Sempre più spesso le religioni vanno a braccetto con il potere costituito. Il fenomeno è trasversale. Intervista a 360 gradi con il giurista Marco Ventura

17 marzo 2019

(Gaëlle Courtens) “Religione e potere” è il tema che farà da filo rosso al prossimo meeting della European Academy of Religion (EuARe). La terza edizione si è appena conclusa a Bologna, ed è proprio nel quadro dell'iniziativa promossa dalla Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII che abbiamo incontrato il giurista Marco Ventura, direttore del Centro per le scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento, con cui abbiamo anticipato qualche aspetto relativo al tema scelto per il 2020: l’utilizzo della religione come arma.

Marco Ventura

Religione come arma
Si moltiplicano nel mondo i governi autoritari giunti al potere grazie anche - naturalmente non solo - al sostegno della rispettiva religione di maggioranza. L’ultimo esempio è senz’altro il Brasile, dove le chiese neo-pentecostali hanno contribuito in modo decisivo alla vittoria di Jair Bolsonaro. In Polonia il partito di governo nazionalista di destra PIS vede il sostegno della chiesa cattolica polacca. In Russia Vladimir Putin non fa più mistero da tempo del sodalizio che intrattiene con il Patriarca della chiesa ortodossa russa Kirill I. E in Ungheria, Victor Orbàn gode dell’appoggio - tra le altre - della chiesa riformata, seppure non maggioritaria, tuttavia “tradizionalmente” ungherese. Per non parlare dell’appoggio delle chiese evangelicali statunitensi a favore del presidente Donald Trump.

Il Brasile, Bolsonaro e gli evangelicali (Segni dei Tempi RSI)

Marco Ventura, cosa sta succedendo? Stanno tornando i regimi dell’ “cuius regio eius religio”?
C'è dappertutto un bisogno di ordine e un bisogno di identità. Le religioni, soprattutto le religioni maggioritarie - le grandi chiese per quanto riguarda l'esperienza cristiana - da questo punto di vista rappresentano una risorsa: forniscono un senso di ordine e identità. I leader politici che hanno meno paura degli effetti di medio e lungo periodo, se ne avvalgono. Sul breve periodo i sodalizi tra religione e potere sicuramente funzionano, ma le religioni sono sempre imprevedibili e quindi chi è spaventato da questo trend può sempre consolarsi del fatto che ci possono essere effetti collaterali indesiderabili che possono poi giocare contro questo tipo progetto politico.

Quindi lei è ottimista?
Ottimista è dire molto, ma sicuramente sono scettico sul fatto che queste strategie possano funzionare al di là delle prossime elezioni, perché l'esperienza religiosa, i simboli religiosi, anche gli aspetti più superficiali della religione che solleticano gli appetiti dei leader populisti di oggi, sono in realtà molto più complessi di quelli che sembrano. Non sono ottimista naturalmente sui danni che intanto si producono sul breve periodo per la politica, per le collettività e naturalmente per le comunità religiose stesse. Ma sono possibilista sul fatto che questa sia probabilmente una congiuntura con le ore più contate di quello che non si possa temere.

Papa Francesco e Muhammad al-Tayyeb

Intanto ci sono istanze religiose, anche di massimo livello, che reagiscono. Penso al recente incontro ad Abu Dhabi tra papa Francesco e Ahmad al-Tayyeb, il Grande Imam di al-Azhar del Cairo, per firmare una inedita dichiarazione di fratellanza. Che effetti possono avere?
Se da una parte vi è una profonda ambiguità di alcuni leader religiosi rispetto alla tentazione dell'abbraccio con le politiche sovraniste, dall’altra vi è anche una reale vitalità dell'esperienza religiosa contemporanea. Nell'ambizione dei credenti di essere una forza che cambia la storia, quei leader politici, chiamiamoli “populisti”, sono una chiusura d'orizzonte, rappresentano un limite, quindi c'è anche una profonda insofferenza rispetto a quell'abbraccio. E vediamo ogni giorno come comunità e leader religiosi, a vari livelli, cerchino di sottrarsi a quell'abbraccio, magari facendo leva gli uni sugli altri. E qui c'è lo scenario dei rapporti interreligiosi che rappresenta un orizzonte di speranza proprio nel senso della capacità delle comunità religiose, attraverso la loro autonomia, di stabilire fronti che le emancipano dal bisogno dell'uomo forte di turno.

Si dice da anni che l’antidoto ai conflitti tra religioni, o allo scontro di civiltà, è il dialogo. Ma il mero dialogo interreligioso è ancora sufficiente?
C'è un dialogo simbolico, c'è un dialogo per i media, c'è un dialogo retorico che ha comunque una sua importanza, ma che naturalmente ha effetti limitati. E poi c'è un altro dialogo: un dialogo più profondo, un dialogo che deve essere fatto al contempo localmente, nella prossimità, negli incontri personali, ma anche su scala globale. Un lavoro difficile che si svolge dietro le quinte, di minor dividendo anche da un punto di vista della visibilità, però è probabilmente il lavoro che davvero cambia gli scenari futuri religiosi e non.

Putin e il patriarca Kirill

Può essere più preciso?
Bisogna toccare i nodi che la grande retorica degli incontri planetari tra leader religiosi non sembrano in grado di toccare. Sentiamo tutti che non possiamo essere troppo esigenti rispetto al fatto che si affrontino dei grandi nodi più in profondità come la legittimità delle religioni, come i diritti delle persone, l'uguaglianza delle persone indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa, gli orientamenti sessuali, la piena parità tra uomo e donna, il rapporto tra sesso e potere...

Deve stabilirsi una positività nel rapporto tra gli uni e gli altri con una grande voglia di aprire gli occhi sui principali nodi della fede

Non bastano dichiarazioni - anche dichiarazioni che lasciano trasparire un desiderio di parlarne - bisogna andare più in profondità almeno nelle sedi opportune. E direi che proprio sul tema del rapporto tra sesso e potere nelle religioni è necessario andare in profondità, è necessario vedere la realtà, parlare di casi, essere contestuali, e poi bisogna che dall'alto - oltre al grande messaggio simbolico - venga anche un messaggio di volontà di correre rischi, di guardare in faccia davvero ai problemi.

Su questo fronte c’è la necessità di riguadagnare credibilità agli occhi degli stessi fedeli, e quindi di lavorare internamente a ogni singola confessione o religione?
Direi senz'altro di sì. È difficile dire chi debba prendere l'iniziativa, perché l'iniziativa appartiene a tutti, i singoli credenti, le comunità dal basso e i leader dall'alto devono entrambi prendere l'iniziativa, non può bastare una dei due, deve stabilirsi una positività nel rapporto tra gli uni e gli altri con una grande voglia di aprire gli occhi sui principali nodi della fede oggi. Soprattutto sul nodo dell'uso della sessualità e del controllo sessuale, ma anche della repressione delle sessualità diverse, collegata all'esercizio di un potere. I populismi si stanno nutrendo molto di questo: anche da un punto di vista sociale e politico la repressione della diversità, la demonizzazione dell'altro, corre sui due binari contemporaneamente. Ed è proprio qui che le chiese e le comunità religiose devono sottrarsi.

Riscoprendo la loro vocazione per la giustizia sociale ed economica?
Ai nodi appena citati se ne aggiunge un altro: quello dell'economia. Cioè, il rapporto con le scelte rispetto al modello economico. Che cosa le comunità religiose sono davvero capaci di fare sul terreno, concretamente, per lo sviluppo, o per la lotta al cambiamento climatico? E parlo anche dal punto di vista della creazione di profitto. Qui c'è un grande test per gli imprenditori. Non basta dire loro: “devi fare di più!”. Dobbiamo vedere imprenditori cattolici e protestanti, sunniti e sciiti, fare impresa diversamente. Questo è un altro nodo enorme dove le stesse comunità di fede hanno un ruolo da svolgere, assumendosi precise responsabilità.

Temi correlati

intervista religioni società

Articoli correlati