Wolkenbruch, l'ebreo e la shiksa

Nel film un giovane ebreo si stacca dalla sua famiglia ortodossa. Ma come vanno le cose nella vita reale? Facciamo i conti con la realtà a Zurigo-Wiedikon

14 novembre 2018

(Pascal Ritter) Lo schermo cinematografico dista soltanto 500 metri dalla sinagoga. Nella sala gremita del cinema Houdini, nel Kreis 4, gli zurighesi ridono seguendo le vicende di Mordechai “Motti” Wolkenbruch, un giovane ebreo che si innamora di una shiksa, una non ebrea.
Con la commedia “Wolkenbruch”, il regista Michael Steiner risparmia agli zurighesi il tragitto fino alla sinagoga sull’altro lato dei binari della ferrovia. Perché il mondo degli ebrei ultraortodossi è in effetti vicino eppure molto lontano dal mondo in cui vive la maggior parte delle persone.
Gli uomini portano lunghe barbe, abiti neri, strani cappelli o kippah. Cordoncini bianchi penzolano sui loro fianchi, boccoli sulle loro tempie. Le donne indossano gonne e parrucche e in qualche modo tutte gli stessi piumini.

La realtà è diversa
Nel film Motti Wolkenbruch con la sua storia d’amore provoca agitazione nella comunità. Sua madre cerca di allontanarlo dalla shiksa Laura organizzandogli incontri (shiddukh) con ragazze ebree per indurlo a sposare una di loro. Il regista descrive la realtà di una società parallela che evita il contatto con il mondo esterno. Che cosa c’è di vero nella commedia?
Per fare i conti con la realtà dobbiamo percorrere quei 500 metri. Perché per parlare con gli ebrei conservatori non c’è posto migliore dell’incrocio tra la Weststrasse e l’Erikastrasse proprio nel cuore di Zurigo-Wiedikon. Qui si trova la sinagoga Agudas Achim. Mentre altri ebrei ortodossi si uniscono agli ebrei liberali in associazioni e sinagoghe, i membri di questa comunità rimangono generalmente fra di loro. Sono ebrei che vivono secondo un’interpretazione conservatrice della propria fede. I matrimoni misti sono tabù e diversi membri non lavorano per potersi dedicare completamente allo studio dei cinque libri di Mosè, la Torah. I circa duemila ultraortodossi sono una minoranza tra i 18.000 ebrei in gran parte liberali o laici che vivono in Svizzera.

"Wolkenbruch", di Michael Steiner

Proprio di fronte alla sinagoga il supermercato Koscher City propone generi alimentari prodotti secondo le norme ebraiche. La carne proviene da animali macellati secondo le prescrizioni ebraiche e non entra mai in contatto con latte e latticini.
Judith Rubinstein attraversa la vecchia strada di transito a traffico limitato. La quarantaseienne non ha visto il film “Wolkenbruch”. “Se noi ortodossi guardiamo un film è uno di quelli prodotti da noi”, dice Rubinstein, che in realtà si chiama diversamente, ma come tutti gli ebrei ortodossi intervistati non vuole che il suo nome compaia su un giornale. Nessuno dei suoi dodici figli si è ancora innamorato di una shiksa o di uno shegetz, come vengono chiamati in yiddish gli uomini non ebrei. Cinque di loro hanno già trovato un partner all’interno della comunità. Gli altri sono ancora troppo giovani per sposarsi. “Vorrei che i miei sette figli e le mie cinque figlie sposassero un’ebrea o un ebreo”, dice. Ne va della sopravvivenza del popolo ebraico. Chi, come Rubinstein, interpreta rigidamente la fede ebraica crede che possa essere ebreo soltanto chi ha la madre ebrea. “Alla fine, però”, dice Rubinstein, “devono essere i figli stessi a decidere”.

Giudizi severi
Quando comincia a far buio, arrivano in sinagoga uomini in cappotto nero. Inizia la seconda delle tre preghiere quotidiane. Alcuni indossano la kippah, altri cappelli di feltro neri un po’ più appariscenti. Quando gli viene chiesto del film un uomo dalla lunga barba bianca gesticola e dice: “È terribile, non è obiettivo”. Un uomo più giovane concorda. “Vengono mostrati ebrei vestiti come noi, ma racconta la storia di qualcuno che ha perso la fede”. Accade raramente che un ebreo ultraortodosso lasci la comunità a causa di una shiksa. Con le loro critiche non fanno che confermare proprio quello che il film fa vedere: è difficile per i giovani uscire dalla comunità.

Samuel Friedman e Samuel Cohen quel passo l‘hanno compiuto. I due giovani hanno messo via i cappelli e si sono tagliati i lunghi boccoli. Continuano a vivere a Zurigo-Wiedikon, non sono sposati e con tanti figli, e abitano insieme in un alloggio condiviso. Ieri erano a Leverkusen, perché lo Zurigo giocava lì contro il Bayern Monaco. Guardare le partite di calcio è un’altra delle cose che da ragazzi non gli era concesso fare. Cohen ha fatto da consulente al regista Steiner durante le riprese e ha anche una parte nel film. Non quella di un ortodosso, bensì di cameriere nel pub dove Motti e la shiksa Laura si incontrano.

Hotline per chi esce
Friedman e Cohen sono in procinto di fondare una piattaforma di consulenza per chi esce dall’ebraismo ortodosso. “Ci vuole molta forza per andare per la propria via”, dice Cohen. L’intento è quello di offrire ai giovani tormentati dal dubbio la possibilità di parlarne con qualcuno per telefono o mediante il sito web. La piattaforma si chiama Derachim, che vuol dire “via”. Il messaggio: ognuno deve andare per la propria via.
La preghiera del pomeriggio è finita. Il diciottenne Benjamin esce dalla sinagoga. Con la sua barba rada ma in crescita sembra un po’ Motti Wolkenbruch. Ma a differenza del personaggio del film a Benjamin è bastato un solo shiddukh. “Mi sposo tra due settimane”, dice raggiante. (da Watson; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)

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