La scelta nonviolenta

In vista della giornata internazionale della nonviolenza, che si celebra il 2 ottobre, incontriamo il filosofo pacifista francese Jean-Marie Müller

30 settembre 2018

Jean-Marie Müller è un filosofo pacifista francese, specialista di Gandhi e della nonviolenza. Direttore dell'Istituto di ricerca per la soluzione nonviolenta dei conflitti, è conferenziere, autore di articoli e libri, obiettore di coscienza al servizio militare. Ha partecipato a manifestazioni contro le armi atomiche, a scioperi della fame contro piazze d'armi, alle lotte di movimenti che in varie parti del mondo si sono battute e si battono per la giustizia sociale e l'affermazione dei diritti umani.

Jean-Marie Müller, da dove viene il termine "nonviolenza"?
Il termine "nonviolenza" è stato creato da Gandhi. Nella tradizione della chiesa cristiana è una parola sconosciuta, che non compare mai. All'inizio, quando Gandhi si trovava ancora in Sudafrica e cercava di organizzare una forma di resistenza contro il razzismo, usò il termine di "resistenza passiva". Anche oggi, a volte, quando si parla di una resistenza non armata, si parla di resistenza passiva. Ma è una contraddizione in termini, in quanto la resistenza non può essere passiva. Gandhi capì molto presto che occorreva cambiare definizione, e dunque inventò un nuovo termine. Lo prese dal sanscrito, "satyagraha", che significa "forza della verità", attaccamento alla verità.

Jean-Marie Müller

Che cos'è, per Gandhi, la verità? Che definizione ne da?
La verità è precisamente la nonviolenza. Al contrario, la violenza è ciò che distrugge la verità, che la annienta. È stato dunque Gandhi a creare questo termine, al quale più tardi ha affiancato un'altra parola, anche questa in sanscrito, "ahimsa", che letteralmente significa "nonviolenza". Troppo spesso la nonviolenza è stata giudicata in modo negativo, ritenendo che la violenza e il suo uso fossero positivi. Io credo invece che fondamentalmente sia la nonviolenza a essere positiva, proprio perché è un rifiuto radicale della violenza. Per Gandhi la nonviolenza coincide con la ricerca della verità e perciò riguarda anche il cristianesimo e ogni religione.

Che rapporto c'è, per Gandhi, tra le religioni e la nonviolenza? E c'è un legame tra la ricerca di Dio e la nonviolenza?
Secondo Gandhi non si deve dire "Dio è la verità", ma "la verità è Dio"... che è un'altra cosa, molto diversa. Se dico che Dio è la verità, corro il rischio di contestare chi si oppone ai dogmi e addirittura di ricorrere all'uso della violenza contro di loro. Come sappiamo, la storia è piena di violenza delle religioni contro i cosiddetti eretici. Per Gandhi, dunque, ciò che è importante è rendere testimonianza alla verità. A questo proposito egli affermò, molto chiaramente, che "non è possibile conoscere Dio al di fuori della nonviolenza". La nonviolenza è il cammino che permette di conoscere Dio. In questo senso è possibile concludere, con Gandhi, che le religioni hanno ignorato Dio nella misura in cui hanno ignorato la nonviolenza.

Per Gandhi la nonviolenza coincide con la ricerca della verità

Lei ci ha detto che è stato Gandhi a inventare, se così si può dire, il termine "nonviolenza". Ma al di là di questo, quale è stato il contributo dato dal Mahatma alla riflessione sulla nonviolenza e allo sviluppo della nonviolenza?
Il grande contributo dato da Gandhi, oltre alle considerazioni filosofiche e spirituali intorno alla nonviolenza, è quello relativo alla strategia. Dapprima in Sudafrica e più tardi in India, ha creato una strategia fondata sulla disobbedienza contro le leggi ingiuste. Noi viviamo in una cultura dell'obbedienza allo stato: ciò che caratterizza il buon cittadino è la sottomissione e l'obbedienza allo stato. La nonviolenza ci porta a ripensare questo atteggiamento di obbedienza sottomessa e passiva invitandoci a giudicare le leggi. Certo, una legge giusta merita ed esige di essere rispettata, ma dobbiamo sempre analizzare criticamente le leggi dal punto di vista del loro rapporto con la giustizia. E questo è ciò che spesso non facciamo.

Lei afferma che la nozione di nonviolenza è assente nella storia del cristianesimo. Quale fu allora il rapporto di Gandhi con il cristianesimo, in particolare con la Bibbia, dal punto di vista della nonviolenza?
Nel 1931, durante un viaggio che lo aveva portato anche in Italia, sulla nave che lo riportava in India, alcuni cristiani chiesero a Gandhi quale fosse la sua visione del cristianesimo. Lui rispose che quando cominciò a interessarsi della Bibbia, all'età di circa 45 anni, non trovò dapprima nulla, nell'Antico Testamento, che attirasse la sua attenzione. Passando però al Nuovo Testamento, cominciò a capire l'insegnamento del cristianesimo. Il testo che più di ogni altro lo colpì fu il sermone sul monte, che egli definì la magna charta della nonviolenza. Il messaggio del sermone, disse Gandhi, consiste in un appello a non vendicarsi, a non resistere al male ricorrendo al male. Gesù, disse Gandhi, è venuto a stabilire una legge nuova. Benché si affermi che Gesù non abbia aggiunto nulla di nuovo rispetto alla legge antica, di Mosè, in realtà ha modificato quella legge sostituendo la legge del taglione, quella che dice "occhio per occhio, dente per dente", con una legge nuova che dice di fare due chilometri con chi ci dice di farne uno. La lettura del sermone sul monte, disse ancora Gandhi, fu quella che mi insegnò ad amare Gesù.

Gandhi non ha solo parlato della nonviolenza, non si è limitato a descriverla da un punto di vista teorico, ma è stato anche all'origine di azioni concrete, pratiche, ispirate a una strategia nonviolenta. Ci potrebbe fare, per concludere, un breve esempio?
Gli indiani dovevano pagare, al governo inglese, un'imposta sul sale. E questo malgrado il fatto che il subcontinente indiano sia circondato dal mare, salato. Gandhi chiese dunque agli indiani di rifiutare di pagare la tassa sul sale per affermare la loro libertà e il loro desiderio di indipendenza. A questo scopo organizzò una marcia, attraverso tutta l'India. Quando il corteo raggiunse il mare, Gandhi raccolse una manciata di sabbia e sale e rivolse di nuovo agli indiani un appello alla disobbedienza civile. Ovviamente Gandhi fu arrestato e messo in prigione. Per lui quella fu una vittoria, perché nello schema della resistenza nonviolenta di fronte all'oppressione e alla repressione, l'essere messi in prigione non fa che aumentare l'efficacia della protesta. E dalla prigione, Gandhi poté misurare l'impatto della sua azione.

Con la sua protesta, Gandhi riuscì a scuotere la coscienza degli indiani e, a lungo andare, a scacciare dall'India l'occupante inglese. Che cosa sarebbe successo se non avesse scelto l'opzione nonviolenta?
Gandhi diceva: "Se la scelta fosse stata solo tra la violenza e l'accettazione rassegnata, allora avrei scelto la violenza". E questo lo diceva a tutti coloro i quali desideravano combattere contro il colonialismo. Per rispondere alla domanda: credo che se non ci fosse stato Gandhi, la resistenza che si sarebbe organizzata contro la dominazione coloniale britannica - che sarebbe probabilmente comunque stata sconfitta - avrebbe raggiunto il suo scopo, ma con un grave tributo di sangue. (da campusprotestant.com; versione italiana a cura di Paolo Tognina)

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