San Suu Kyi tace sui Rohingya

Perché la premio Nobel per la pace non dice nulla sulle violenze contro la minoranza musulmana dei Rohingya?

29 ottobre 2017

(ve/SRF news) Dopo le elezioni del 2015, in cui fu protagonista di una vittoria schiacciante, Aung San Suu Kyi è diventata una seguace della Realpolitik. Prendere posizione a favore dei Rohingya significherebbe per lei la morte politica. A sostenerlo è Peter Achten, corrispondente della Televisione della Svizzera tedesca SRF.

Il governo di Aung San Suu Kyi ha definito parzialmente falsi i rapporti sulle violazioni dei diritti umani e sta alimentando la paura del terrorismo islamico. Funziona questa retorica politica in Birmania?
Sì, funziona molto bene, nonostante la libertà di stampa, che dal 2012 è piuttosto presente. Molti buddisti - che costituiscono il 90% della popolazione birmana - credono a quella versione. In questo modo viene rafforzata l'immagine ufficiale della propaganda di Stato, che sostiene che i Rohingya - chiamati bengali in Birmania -, sono terroristi. La violenza è opera dei musulmani, recita un altro messaggio. Vogliono accelerare l'islamizzazione della Birmania buddista, sostengono altri, sebbene i musulmani siano appena il cinque percento della popolazione. Questa propaganda funziona molto bene presso la maggioranza della popolazione birmana.

La tragedia dei Rohingya, Segni dei Tempi RSI La1

La tragedia dei Rohingya

È una questione di mantenimento del potere. Che cosa si sa della posizione personale di Aung San Suu Kyi nei confronti dei Rohingya?
È molto difficile da dire. Penso che condivida l'opinione di tutti i birmani buddisti. Considera i Rohingya immigrati dall'ex Bengala, l'odierno Bangladesh. Parte dal presupposto che tra di essi ci siano molti terroristi e che i Rohingya non abbiano diritto di stare in Birmania. A differenza di altri 134 gruppi etnici. Bisogna inoltre sottolineare che non si tratta di un conflitto religioso, ma di un conflitto etnico-sociale che era scoppiato già all'epoca della colonizzazione britannica. Tutto il conflitto porta con sé anche elementi razzisti. È interessante il fatto che in Birmania si continui a sentire che i birmani sono quelli di pelle chiara e i bengali quelli di pelle scura.

L'esercito ha isolato le zone in cui vivono i Rohingya. I militari possono uccidere, ridurre in cenere villaggi e mandare via persone restando inosservati. Aung San Suu Kyi ha le mani legate o potrebbe in qualche modo contrastare l'esercito?
Al momento Aung San Suu Kyi ha sicuramente le mani legate. I militari sono ancora la forza decisiva. Hanno la sicurezza interna e la difesa. Hanno una minoranza di blocco in Parlamento, di modo che nessuna modifica della Costituzione possa andare in porto. Aung San Suu Kyi ha le mani legate, forse fino alle prossime elezioni nel 2020. Se dovesse vincere di nuovo, allora forse potrà ottenere di più, anche nella questione dei Rohingya.

San Suu Kyi

La comunità internazionale, soprattutto in Occidente, è delusa. Erano state riposte molte speranze su Aung San Suu Kyi. C'è addirittura chi chiede che restituisca il premio Nobel per la pace. Ma importano poi a qualcuno queste proteste internazionali?
No, sono inefficaci. Ma considero una pessima idea un ritiro del premio Nobel per la pace, perché ha fatto moltissimo per la Birmania, correndo un grosso rischio a livello personale. Non possiede più l'integrità morale di un Nelson Mandela, per esempio, ma penso che Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace del 1991, dovrebbe ascoltare bene il premio Nobel per la pace del 1989, il Dalai Lama, il quale ha detto: “Budda si sarebbe impegnato a favore dei Rohingya”.

Il silenzio sui crimini contro i Rohingya fa di Aung San Suu Kyi un'eroina senza più l'incanto...
Sì, purtroppo. La vedo così anch'io, che la seguo dal 1988. L'ho anche intervistata più volte. Per me era davvero una grande icona della democrazia. Quest'aura ormai non c'è più. (intervista a cura di Marlen Oehler)

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