Gli insegnamenti della guerra in Siria

Quali lezioni è possibile cominciare a trarre dal conflitto siriano, in atto da oltre quattro anni?

02 settembre 2015

(Louis Fraysse) 15 marzo 2011: inizio della contestazione. Agosto 2013: l'esercito siriano fa uso di armi chimiche in un attacco vicino a Damasco. 2014: il gruppo Stato islamico (IS) s'impossessa di vasti territori della Siria orientale. Gennaio 2015: i combattenti curdi siriani riprendono la città di Kobane all'IS. Domenica 16 agosto un raid dell'aviazione siriana provoca la morte di oltre cento persone in un mercato di Duma, città della periferia di Damasco sotto il controllo degli insorti. Due giorni dopo sedici persone muoiono a Qamishli, nel nord-est della Siria, in un attentato suicida rivendicato dal gruppo Stato islamico, che moltiplica le sue atrocità nel paese e nel vicino Iraq.

Un bilancio terribile
A quattro anni e mezzo dallo scoppio della guerra civile siriana- sulla scia delle “primavere arabe” che hanno visto il rovesciamento dei regimi tunisino, egiziano e libico -, il bilancio è pesantissimo. I morti sono oltre 240.000. Quasi cinque milioni di siriani hanno trovato rifugio all'estero, essenzialmente nei paesi confinanti - Libano, Turchia e Giordania - e otto milioni di “sfollati interni” hanno abbandonato le proprie case per rifugiarsi altrove nel paese. Oltre la metà della popolazione del paese è dovuta fuggire dai combattimenti.

Le fazioni in lotta
“Il conflitto siriano è stato annunciato ancor prima del suo scoppio, sulla scia delle insurrezioni in Tunisia e in Egitto”, rileva Thierry Garcin, ricercatore associato all'università di Paris-Descartes, esperto di relazioni internazionali. “Tuttavia si è rapidamente regionalizzato e poi internazionalizzato”.
Mentre i regimi di Zine El-Abidine Ben Ali, in Tunisia, e di Hosni Mubarak, in Egitto, sono crollati nel giro di qualche mese, abbandonati dai loro eserciti, quello del presidente siriano è riuscito in qualche modo a reggere. Mai, dall'inizio dell'insurrezione, gli insorti sono riusciti a mettersi d'accordo o a proporre un'espressione politica comune. Privo di legami con i gruppi armati presenti sul territorio, il Consiglio nazionale siriano non è riuscito a convincere della sua legittimità. Divisi tra laici e islamisti e quindi tra gli stessi islamisti, gli insorti non hanno smesso di divorarsi tra di loro.

Gli alleati di Assad
Sul fronte opposto, il governo è rimasto relativamente unito. Il suo dominio dello spazio aereo gli assicura una superiorità militare rispetto agli avversari, che non sono stati dotati di armi antiaeree pesanti nel timore che queste cadano nelle mani dei jihadisti, i quali potrebbero usarle per abbattere aerei civili partiti da Tel Aviv o da Beirut.
Se Bashar al-Assad è riuscito a restare al potere è anche grazie al sostegno dei suoi alleati. La Russia, innanzitutto, che l'ha protetto con il suo veto al Consiglio di sicurezza dell'ONU e ha continuato a fornirgli armi, ma anche l'Iran e i suoi alleati libanesi di Hezbollah. Proprio Hezbollah, nel 2013, ha inviato in Siria migliaia di soldati per affrontare gli insorti.

Il rompicapo della guerra siriana
“La guerra in Siria costituisce un cimitero per le analisi; raramente ci si è sbagliati tanto su un conflitto come su questo”, ritiene Frédéric Pichon, ricercatore associato dell'équipe Monde arabe et Méditerranée dell'università François-Rabelais di Tours. “Sin dalle prime settimane i diplomatici avevano affermato che Bashar al-Assad sarebbe presto caduto, poi è stato detto che gli alawiti erano sul punto di abbandonarlo, al pari dei russi. Ma tutto questo si è rivelato inesatto e, con il senno di poi, notevolmente marcato dall'ideologia”.
Una constatazione condivisa da Fabrice Balanche, direttore del Gruppo di ricerca e di studi sul Mediterraneo e il Medio Oriente (GREMMO): “Nel 2011 gli occidentali hanno peccato di sicurezza, attizzati dal loro successo iniziale in Libia, dopo l'intervento che ha portato alla morte del colonnello Gheddafi”, approfondisce. “Questo successo coronava venti anni di egemonia occidentale sul mondo, dal crollo dell'URSS. Ma dall'affronto che ha rappresentato per loro l'intervento armato in Libia, i russi hanno deciso di difendere i loro interessi in modo più aggressivo, in particolare mediante il loro diritto di veto all'ONU. E il Cremlino ha fatto sapere che se gli occidentali, Stati Uniti in testa, decidessero di intervenire senza l'avallo del Consiglio di sicurezza, non resterebbe a braccia incrociate”.
Secondo il ricercatore, è ciò che è accaduto a settembre 2013, quando la flotta americana si è avvicinata alle coste siriane, poco dopo le rivelazioni sull'uso di armi chimiche da parte di Damasco. Sul fronte opposto, la Russia aveva installato batterie di DCA. Gli americani finirono per allontanarsi, ma lo scontro diretto fu evitato per un soffio.

Verso una divisione?
La fermezza della Russia, preoccupata di non abbandonare un regime alleato, va anche messa a confronto con i voltafaccia dei diplomatici occidentali. Nell'agosto del 2012 il presidente americano Barack Obama aveva fissato una “linea rossa” - l'uso di armi chimiche da parte del regime - oltrepassata la quale ci sarebbero state “conseguenze enormi”. Venne varcata a più riprese, ma gli Stati Uniti rinunciarono a intervenire, accontentandosi dello smantellamento dell'arsenale chimico siriano.
“La guerra in Siria ha mostrato che l'Occidente non è più in grado di dettare i suoi desiderata al resto del mondo”, commenta Frédéric Pichon. “D'altronde la maggior parte dei leader naviga a vista su questo conflitto. L'avanzata dei jihadisti in seno all'insurrezione, per esempio, era ampiamente prevedibile, ma questo dato è stato negato dalla nostra diplomazia”.

Diplomazia occidentale in affanno
“I diplomatici occidentali hanno dato troppo credito ai discorsi dell'opposizione siriana in esilio, che assicurava non esserci alcuna tensione tra le diverse comunità nel paese”, gli fa eco Fabrice Balanche. “Più tardi, il Quai d’Orsay non ha smesso di affermare che il gruppo Stato islamico non era altro che una creazione di Bashar al-Assad, il che è grottesco! Questo conflitto è una prova che persino in democrazia possiamo essere facilmente raggirati”.
Oggi la Siria è a tal punto frammentata in fazioni che la divisione del paese viene presa sempre più in seria considerazione. Il regime mobilita le sue forze allo scopo di conservare il potere sulla Siria “essenziale”, ossia un cordone che collega il mar Mediterraneo - la zona costiera rappresenta il bastione degli alawiti, comunità da cui proviene Bashar al-Assad - a Damasco, la capitale, fonte di legittimità interna e internazionale. Il regime controlla ancora il 30% del territorio siriano, dove vive circa il 60% della popolazione del paese, tra cui numerosi sfollati interni.

L'avanzata dello Stato islamico
Il resto della Siria è in mano al gruppo Stato islamico - 50% del territorio, ma soltanto il 10% della popolazione -, a vari gruppi islamisti (come il Fronte al-Nusra, ramo di Al Qaeda in Siria) o laici (come l'Esercito siriano libero) e ai curdi, presenti soprattutto nel nord-est del paese.
“La Siria, come l'Iraq, non è mai stata uno Stato nazionale”, rileva Fabrice Balanche. “Da qualche anno le maggioranze dei due paesi - gli sciiti in Iraq, i sunniti in Siria - hanno cominciato a conquistare il potere. In quest'ottica le minoranze che dispongono di un forte radicamento in un dato territorio, come i curdi, i drusi o gli alawiti prendono in considerazione la secessione se non viene loro concessa una forte autonomia. Gli altri, come i cristiani o gli yazidi, non hanno molta altra scelta a parte l'esilio...”

Un piano di pace all'ONU
È opinione condivisa da tutti che il caos che regna in Siria non possa che avere ripercussioni drammatiche per il Medio Oriente, Libano in testa. “L'uso della violenza sfugge a ogni regola in Siria; non si può che essere sgomenti di fronte al livello di barbarie che vi regna oggi”, osserva Thierry Garcin, che punta il dito contro il peso considerevole avuto dall'invasione americana-britannica del 2003 come matrice dell'esplosione della regione. “Il mondo arabo non si era mai trovato così diviso come oggi. È una tragedia della civiltà che non giova a nessuno, né al mondo ebraico, né al mondo cristiano, né al mondo musulmano”.
Sul piano diplomatico, il 17 agosto il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha adottato un nuovo piano di pace per la Siria. Cosa sorprendente, questo piano è stato adottato all'unanimità, in particolare dalla Russia di Vladimir Putin. Un motivo di speranza? Piuttosto un riconoscimento dell'attuale impasse - il destino del presidente siriano non è nemmeno evocato nel testo. L'opposizione siriana insiste sul fatto che la partenza di quest'ultimo sia una premessa alle discussioni, mentre il Cremlino la giudica una condizione “inaccettabile”.
Da qui la necessità, secondo Fabrice Balanche, di dimostrare maggiore “realismo politico”: “I russi, così come gli iraniani, non cambieranno strategia tanto presto”, è la sua analisi. “Bashar al-Assad non cadrà nei prossimi mesi e la guerra causerà ancora più morti, ancora più profughi. Poiché i paesi confinanti sono saturi, quest'ultimi si dirigeranno sempre di più verso l'Europa. L'Unione europea deve rivedere la sua strategia e sostenere la priorità assoluta di porre fine al conflitto... a costo di negoziare con il diavolo, Bashar al-Assad”. (da Réforme; trad. it. G. M. Schmitt/voceevangelica.ch)