L'etica cristiana e l'uso della violenza

Le milizie del Califfato procedono con inaudita brutalità contro le minoranze religiose e vogliono terrorizzare l'Occidente. Che cosa devono fare i cristiani di fronte a una simile situazione?

15 febbraio 2015

Religione e terrorismo si ripresentano, in questi ultimi anni, in uno stretto legame che suscita inquietudine e incertezza. Una delle soluzioni che potrebbero essere adottate per cercare di fermare l'avanzata dello Stato Islamico consiste nel combattere una guerra contro le milizie islamiste. Nell'Iraq settentrionale, molti cristiani hanno imbracciato le armi per difendersi e si sono uniti ai combattenti curdi. Che cosa dice l'etica cristiana della pace in circostanze come queste?
Pierre Bühler ha insegnato, fino a poche settimane, alla facoltà di teologia dell'università di Zurigo. In questa intervista accetta di mettersi in gioco su un tema controverso come quello dell'uso della forza e del ricorso alla guerra da un punto di vista cristiano.

Professor Bühler, lei proviene da un'ala pacifista del movimento protestante...
Sì, sono cresciuto in una chiesa evangelica anabattista, un movimento nato all'epoca della Riforma e che si è sempre contraddistinto per le sue scelta nonviolente. Gli anabattisti hanno sempre rifiutato il servizio militare, in base alla loro interpretazione del Discorso della montagna fatto da Gesù, in cui Gesù invita ad amare il prossimo. E questo ha sempre avuto un ruolo importante.

Nelle beatitudini, contenute nel Discorso della montagna, Gesù ha detto, "beati i facitori di pace". Quanto è importante quel passo nella tradizione dalla quale lei proviene?
Nella tradizione anabattista quello è un passo molto importante, anche se naturalmente ci sono sempre di nuovo delle situazioni in cui quell'etica della pace mostra i propri limiti. Ma il principio di base rimane quello della rinuncia alla violenza. Questo significa che l'incontro con l'altro deve sempre tendere a minimizzare il conflitto, a disinnescare la violenza, a evitare lo scontro.

Sta forse dicendo che ci sono delle situazioni in cui la rinuncia alla violenza può essere messa in dubbio, anche da un punto di vista cristiano?
Questa è una domanda difficile. Io credo che nel cristianesimo esistano almeno due risposte possibili. Ci sono delle situazioni in cui non è possibile stare semplicemente a guardare e permettere che le cose vadano avanti, senza intervenire. L'etica della pace non può più essere applicata fino in fondo. Del resto, nella Bibbia - che gli anabattisti leggono e rispettano molto - si dice che le vedove e i bambini devono essere difesi, e dunque anche le vittime devono essere difese. Questo significa che a volte occorre difendersi. E difendersi usando la forza.

Ma il cristianesimo non è fondamentalmente una religione di pace?
Nel cristianesimo si è sviluppata e affermata, seguendo il Discorso della montagna, un'etica della pace. In parallelo, altre interpretazioni presenti nel cristianesimo sottolineano il fatto che lo stato deve avere i mezzi necessari per mantenere l'ordine e di conseguenza è legittimato a combattere gli elementi di disordine. Dunque, nel cristianesimo convivono queste due posizioni. Anche nell'etica filosofica si discute quanto a lungo si debba rimanere tolleranti di fronte a persone che sono intolleranti, o quando la tolleranza è talmente minacciata da doversi difendere dall'intolleranza. Attualmente, in Iraq, ci troviamo in una situazione simile, nella quale il pericolo è talmente grave da richiedere un intervento in difesa di chi è perseguitato.

Certo, le immagini delle violenze compiute dai militanti del Califfato sono orribili e rivoltanti. Molti pensano che occorrerebbe intervenire con la forza per porre termine - mediante una guerra - all'espansione di quello stato criminale. Non ci troviamo allora, come cristiani, di fronte a un nodo difficile da sciogliere?
È vero, penso che ci troviamo di fronte a un dilemma. Però io credo che quando molte persone sono esposte a una grave minaccia, quando la loro vita è in pericolo, allora deve essere possibile condurre una guerra. Non sto dicendo che legittimerei quella guerra senza condizioni - se lo facessi mi spingerei ai limiti dell'etica della pace -, perché non deve essere in gioco nessuna arroganza, nessuna volontà di distruggere il nemico, la forza militare non può essere usata in modo incosciente, e inoltre occorre verificare continuamente la possibilità di porre termine alle ostilità ricorrendo a soluzioni alternative alla violenza.

Lei ha detto di essere cresciuto in una tradizione cristiana pacifista, quella degli anabattisti, che sono stati lungamente perseguitati, nei secoli passati. Ma fin dove arriva il suo pacifismo?
Io non mi definisco come un pacifista radicale. Il pacifismo radicale, esercitato in maniera assoluta, espone inevitabilmente al rischio di rendersi colpevoli per essersi limitati a stare a guardare. Un simile pacifismo rischia di mettere in pericolo molta gente. Ogni volta che la violenza sta per entrare in gioco, occorre attivare la propria coscienza e rimanere vigili e critici. Dunque, occorre stabilire una soglia critica, un limite oltre il quale è possibile immaginare un'azione condotta con l'uso della forza. Sono del parere che un pacifismo ad oltranza sia fuori posto, così come è fuori posto un ricorso alla violenza che non sia stato verificato criticamente.

Ma ogni ricorso alla violenza, e alla violenza militare, implica l'uccisione di persone...
Sì, l'uso della violenza è uso della violenza e bisogna sapere che esso ha delle conseguenze di cui bisogna farsi carico. E tra queste c'è la possibilità che delle persone siano uccise. Ma ripeto, il ricorso alla violenza deve essere e rimanere veramente l'ultima risorsa alla quale fare capo, in caso di emergenza.

Quali sono, a suo modo di vedere, i motivi che potrebbero giustificare un intervento armato contro le forze del Califfato?
Pensando alle popolazioni che sono coinvolte, direi che si tratta di difendere i diritti fondamentali delle persone, e non mi preoccuperei di tracciare delle distinzioni tra la protezione dei cristiani e la difesa di altre minoranze minacciate, tra cui musulmani e yazidi. Certamente, per noi è triste e doloroso vedere popolazioni cristiane perseguitate in Paesi in cui la presenza cristiana risale agli albori della nostra era. Di fronte alle violenze commesse, un intervento militare può trovare una giustificazione nella volontà di difendere e proteggere i diritti fondamentali di quelle popolazioni, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa.

Ci possono essere delle giustificazioni religiose per il ricorso all'uso della forza? Gli islamisti uccidono in nome di Dio e ci sono anche voci cristiane che rispolverano le argomentazioni della guerra giusta...
Quelle giustificazioni sono per me estremamente problematiche. Non c'è nessuna religione che giustifichi in modo diretto e immediato il ricorso alla violenza per combattere contro gli infedeli. Certo, nella storia questo connubio tra religione e violenza si è sempre di nuovo verificato - penso a Thomas Müntzer, ad esempio, che all'epoca della Riforma protestante sosteneva che gli infedeli non avessero nessun diritto di vivere e che dovessero essere estirpati. E oggi sciaguratamente la storia si ripete. Ma questa è una radicalizzazione della religione, che ora si sta verificando nell'islam. Molti credono, in Occidente, che tutto l'islam sia riconducibile a quel modello radicale, ma io credo che non sia così. C'è un'etica di pace anche nell'islam.

Lasciamo da parte il tema dell'uso della violenza e ragioniamo su quello degli aiuti umanitari. Nei confronti delle popolazioni perseguitate - si tratta di milioni di persone che sono in fuga, nel Medio Oriente, la Svizzera sta facendo abbastanza?
Credo che la Svizzera potrebbe fare di più. Pensiamo ad esempio a quanti  milioni di persone, profughi, sono stati accolti dai Paesi confinanti con la Siria, in Giordania e in Libano e in Turchia. Al confronto il numero di profughi accolto dai Paesi occidentali è davvero minimo. La Svizzera ha sviluppato dei programmi per aiutare finanziariamente quei Paesi a sostenere il peso della presenza di profughi. Ma credo che una maggiore apertura e disponibilità ad accogliere i profughi siriani sarebbe senz'altro auspicabile. Proprio adesso, nei mesi invernali, mentre i profughi sono riparati nelle tende, esposti alle intemperie, sarebbe necessario accoglierne un numero maggiore.

Pierre Bühler, da pacifista cristiano, lei ha evocato la possibilità che a volte la guerra - pur con i limiti che ha elencato - possa essere combattuta. Ma allora le chiedo, l'etica cristiana della pace ha ancora una sua ragione d'essere?
Direi che questa etica è ancora valida, oggi, perché costituisce una sorta di istanza critica che ci spinge a verificare a fondo i motivi di un conflitto. Tuttavia penso che l'etica cristiana della pace dovrebbe oggi allargare il proprio raggio d'azione assumendo anche un atteggiamento preventivo. L'etica della pace dovrebbe favorire la convivenza tra le religioni - tra cristiani e musulmani, ad esempio -, e dovrebbe aiutare a prevenire gli scontri anche quando la tensione sale. Ci sono ad esempio dei movimenti, in Palestina, che continuano a sviluppare programmi di pace malgrado il conflitto in corso. Credo che si possa ritenere un successo dell'etica della pace, il fatto che malgrado la guerra vengano implementati dei programmi di integrazione. Questi sono ambiti in cui un'etica della pace si dimostra utile.

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