Le ragioni del politicamente corretto

Il politicamente corretto non gode di buona fama, è spesso concepito come il contrario della libertà d'espressione e come un divieto imposto a ogni forma satirica o irriverente

06 febbraio 2015

(Muriel Schmid) Vale la pena notare che al momento della sua apparizione, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, l'espressione “politically correct” era utilizzata nel contesto americano in maniera denigratoria e serviva a prendersi gioco della sinistra intellettuale che raccomandava l'introduzione di misure protettive per le minoranze. Gli attacchi venivano allora dalla destra neoconservatrice che vedeva nell'ascesa del “politically correct” la perdita dei valori morali occidentali, cristiani e capitalisti! Un famoso articolo, “Thought Police?” (“Una psicopolizia?”), apparso sulla rivista Newsweek il 24 dicembre 1990, formulava chiaramente questi attacchi contro il “politically correct”.
 
Tra sinistra e destra
Da allora lo stesso genere di rivista - Newsweek e soprattutto Forbes che lo scorso dicembre ha pubblicato un articolo dal titolo evocativo: “Is Saying Merry Christmas Politically Correct? Good for Business?” (“Dire Buon Natale è politicamente corretto? Fa bene agli affari?”) - torna regolarmente sulla questione e non cessa di criticare il “politically correct” come la porta aperta al relativismo e a un multiculturalismo sfrenato.
Come spesso accade, del termine inizialmente beffardo si è appropriata la sinistra intellettuale americana. Una seconda versione del “politically correct” ha quindi preso forma negli anni Novanta del secolo scorso, indissociabile da una critica acuta dello “hate speech” (incitamento all'odio) e dei sistemi di oppressione riflessi nelle forme di linguaggio.
Il principio alla base di questo “politically correct” è sostenere che il linguaggio rafforza i sistemi di oppressione e di esclusione. Questa prospettiva si accompagna a una difesa delle minoranze che non beneficiano degli stessi privilegi della maggioranza.
 
Salvare la democrazia
Nella loro battaglia intorno al “politically correct”, la sinistra e la destra sostengono entrambe di voler salvare i valori democratici: la destra sostenendo che il “politically correct” rappresenterebbe un attacco contro la libertà d'espressione, la sinistra affermando che il “politically correct” garantirebbe il pieno rispetto di tutti e tutte nel sistema democratico. Come risolvere la questione?
Due osservazioni mi sembrano importanti: la prima, il “politically correct” sottolinea il fatto che la satira assume significati diversi a seconda del bersaglio contro la quale è usata, ha un ruolo diverso se parla della maggioranza (critica del potere) o della minoranza (rafforzamento indiretto del potere); la seconda, il “politically correct” si situa a monte dell'“incitamento all'odio” e cerca di prevenirlo, mentre le sanzioni - qualsiasi esse siano - si situano a valle dell'“incitamento all'odio” e tentano di riparare ai danni da esso causati.
In seguito agli attentati di Parigi una dimensione molto particolare del “politically correct” e della libertà d'espressione è stata al centro dei dibattiti: lo statuto e le rivendicazioni della caricatura di ordine religioso. Questo ci rimanda alla nozione oggi dimenticata della "bestemmia".
 
Antichi valori cristiani
Il mondo cristiano ha imposto per secoli regole molto rigide concernenti il diritto di attaccare o no la religione e le sue rappresentazioni (rappresentazione di Dio, ad esempio): la pena inflitta per il reato di bestemmia era spesso quella capitale (cfr. Levitico 24, 13-16). Perché quelle norme sono state abolite? E le abbiamo davvero del tutto abolite? Certo, non abbiamo più divieti concernenti la rappresentazione o la critica in generale (un articolo apparso di recente nel Le Monde indica che Charlie Hebdo ha affrontato circa 50 processi tra il 1992 e il 2014). Ma dal 1999 a oggi il dibattito sulla diffamazione religiosa e sulla possibilità di introdurre una legge che vieti la bestemmia è stato oggetto di numerose discussioni in seno alle Nazioni Unite. È interessante notare, a questo proposito, che la più recente risoluzione votata all'ONU (e approvata da una risicata maggioranza) condannava nel 2010 la legge svizzera concernente i minareti! Forse questa discussione, invece di limitarsi al conclave delle sessioni dell'ONU, avrebbe dovuto da tempo essere affrontata seriamente dalla politica, dagli organi preposti all'istruzione e dalle chiese. (in Protestinfo; trad. it. G. M. Schmitt/voceevangelica.ch; adattamento P. Tognina)