La strategia saudita del rancore

L'Arabia Saudita mobilita la sua rendita petrolifera per tentare di affermarsi come potenza regionale di fronte all'Iran

12 ottobre 2015

(Louis Fraysse) L'annuncio risale al 23 settembre. In una dichiarazione video, François Hollande rivelava che le due navi Mistral un tempo promesse alla Russia avevano trovato un nuovo acquirente: l'Egitto del maresciallo Abdel Fattah al Sisi. E per pagare la fattura, che ammonta a quasi un miliardo di euro, è stata l'Arabia Saudita a fornire un aiuto al Cairo. A un centinaio di chilometri di distanza, alla periferia di Damasco, il Jaysh al-Islam (Esercito islamico), un gruppo armato salafita, combatte contro l'esercito siriano. Il suo sponsor? L'Arabia Saudita. Dalla Siria allo Yemen, dal Bahrein al Libano, la “petromonarchia” saudita sistema le sue pedine nel Medio Oriente. Secondo quali imperativi? Per capirlo è d'obbligo qualche accenno storico.

L'intreccio delle dinastie saudite
Il comportamento della diplomazia saudita deve essere analizzato alla luce dell'alleanza stretta nel 18. secolo tra due famiglie, quella degli al-Saud e quella del riformatore islamico Muhammad ibn Abd al-Wahhab. Come indica David Rigoulet-Roze, ricercatore associato presso l'Istituto francese di analisi strategica (IFAS), questi due clan fecero un patto che dura fino a oggi. Gli al-Saud si impegnavano a sradicare dal loro territorio ogni forma di pensiero diversa dal wahhabismo, dottrina sunnita che predica un'interpretazione letteralista dell'islam. In cambio il clero wahhabita garantiva l'obbedienza dei fedeli al potere saudita.

Diplomazie parallele
L'accordo, garanzia di stabilità per il regime, è stato tuttavia minato da un problema ricorrente, quello della successione. Per lo storico Nabil Mouline, esperto di Arabia Saudita, tale questione costituisce addirittura il “tallone di Achille” della dinastia degli al-Saud dal 19. secolo. La regola di successione della monarchia saudita, infatti, è “adelfica”: alla morte del sovrano il potere passa al più potente dei suoi fratelli. A più riprese nel corso della sua storia le crisi di successione hanno indebolito il paese.
Nel tentativo di ammettere i suoi numerosi figli all'esercizio del potere, il re Abd al-Aziz (1902-1953), fondatore dell'Arabia Saudita moderna, ha istituito quello che Nabil Mouline chiama un sistema di “multidominazione”. A ogni principe è affidato un posto di responsabilità - ministero, governatorato, impresa - che dirige in modo più o meno autonomo. Questo sistema ha comportato la nascita di fazioni rivali in seno alla famiglia reale, costituite da membri della famiglia e da tutti i loro “clienti”. Queste fazioni convivono e si affrontano persino nella diplomazia, dove ognuno cura i propri interessi e le proprie ambizioni politiche.

All'ombra degli Stati Uniti
“Esiste una certa porosità tra le decisioni del governo saudita e iniziative condotte a titolo privato”, indica al riguardo David Rigoulet-Roze, caporedattore della rivista “Orients stratégiques”. “Dalla sua creazione, il regno non ha mai cessato di promuovere il wahhabismo nel mondo, finanziando numerosi gruppi coi suoi petroldollari. Il wahhabismo, in certe stuazioni, come in Afghanistan negli anni Ottanta del secolo scorso, ha potuto assumere le tinte della jihad armata, con la nascita di Al Qaeda, creata da un saudo-yemenita, Osama Bin Laden”.
In seno alle diverse fazioni della famiglia reale alcuni argomenti hanno tuttavia sempre trovato consenso. Il primo è l'alleanza con gli Stati Uniti, un'alleanza che si spiega con interessi comuni. All'uscita dalla guerra gli americani vogliono mettere le mani sulle immense risorse petrolifere del regno e soprattutto evitare che lo faccia l'URSS. In cambio Washington promette di proteggere Riad da ogni attacco di un regime nazionalista arabo, come quello dell'egiziano Nasser.

Contro i Fratelli Musulmani
Secondo argomento di consenso, l'ostilità, viscerale, nei confronti del movimento islamico dei Fratelli musulmani. Questo movimento, nato in Egitto nel 1928, si è sempre opposto alle monarchie arabe e non ha mai rinunciato a uno spirito missionario rivale del wahhabismo. Sulla scia delle rivoluzioni arabe del 2011, l'accesso al potere di movimenti collegati ai Fratelli musulmani, in Egitto e in Tunisia, ha fatto sudare freddo le autorità saudite, che hanno inasprito la repressione contro i membri della confraternita presenti sul loro territorio.
Il terzo elemento di accordo in seno alla diplomazia saudita è l'ostilità nei confronti dell'Iran sciita. Dall'ascesa al potere degli islamisti nel 1979 la Repubblica iraniana non ha mai smesso di sbeffeggiare la relazione che unisce la monarchia saudita agli americani “nemici” dell'islam. Da qualche anno lo scontro non avviene più soltanto attraverso dichiarazioni interposte, ma ha luogo sul campo.

L'odio anti-iraniano
“Si può parlare di una nevrosi ossessiva della diplomazia saudita nei confronti dell'Iran”, è l'interpretazione di David Rigoulet-Roze. Riad è persuasa che esista un complotto iraniano che mira ad accerchiare il suo regno con il sostegno dei movimenti sciiti, che si tratti di Hezbollah in Libano, del potere attuale in Iraq e in Siria o degli Huthi nello Yemen”.
È questa paura che nel 2011 ha spinto l'esercito saudita a intervenire in Bahrein per porre fine al sollevamento della popolazione, in maggioranza sciita. Idem nel marzo del 2015 nello Yemen, quando il regno ha creato una coalizione di paesi arabi per respingere l'avanzata dei miliziani sciiti Huthi. Ancora la stessa cosa, infine, in Siria, dove l'Arabia Saudita sostiene sin dall'inizio del conflitto diversi gruppi islamisti ostili sia alle truppe di Bashar al-Assad sia ai jihadisti del gruppo Stato islamico. Uno di essi, il Jaysh al-Islam (Esercito islamico), sostenuto anche dal Qatar e dalla Turchia, raggruppa diversi movimenti, tra cui il potente Fronte al-Nusra, che altro non è che il ramo ufficiale di Al Qaeda in Siria.

Il “tradimento” americano
L'interventismo del potere saudita può essere spiegato con un altro fattore: la sensazione che la dinamica geopolitica attuale vada contro i suoi interessi. “Nessuno può dichiararlo pubblicamente, ma tutti sanno che l'alleanza tra Washington e Riad non funziona più”, osserva David Rigoulet-Roze. “Dall'11 settembre 2001 gli americani hanno acquisito la certezza che il loro nemico fondamentale è l'estremismo sunnita, quello di Al Qaeda e del gruppo Stato islamico. E il ruolo svolto da certi dignitari sauditi nel finanziamento di questi movimenti non è affatto limpido”.
“D'altra parte, a causa dello sviluppo dell'estrazione di gas e di petrolio di scisti sul loro territorio, gli Stati Uniti dipendono molto meno di prima dal petrolio saudita”, aggiunge il ricercatore". Riad ha capito perfettamente che l'accordo sul nucleare iraniano, firmato lo scorso luglio, 'ufficializzava' il ritorno dell'Iran sulla scena internazionale”.

Riad contro Teheran
Già il rovesciamento a febbraio del 2011 del presidente egiziano Hosni Mubarak, fino ad allora alleato indefettibile degli Stati Uniti, era stato percepito da parte dei sauditi come un tradimento. Se gli americani non erano venuti in soccorso di un paese a cui erano legati da 30 anni di alleanza, come assicurarsi che non avrebbero fatto lo stesso con loro in futuro? I negoziati segreti condotti dall'amministrazione americana con Teheran hanno ulteriormente confermato i timori sauditi: gli Stati Uniti sono adesso pronti a giocare la “carta” sciita. I sauditi sono inoltre persuasi che, una volta abolite le sanzioni economiche contro l'Iran, Teheran userà il denaro raccolto per finanziare la sua politica antisaudita in Medio Oriente. E affermarsi, forte dei suoi 78 milioni di abitanti, come la più grande potenza della regione (da Réforme; trad. it. G.M.Schmitt/voceevangelica.ch)